Personalmente sono favorevole al federalismo, e non mi limiterei solo a quello fiscale.
Sono favorevole in quanto dando maggiore libertà alle regioni e ai comuni si creerebbero delle condizioni migliori per la "lotta dal basso".
Credo che sia chiaro a tutti il fatto che per dei cittadini sia più facile agire efficacemente su piccola scala piuttosto che su grande scala.
Per questo motivo riporto un articolo apparso su benecomune.net in cui l'ottimo Gianluigi Bizioli mostra come fino ad oggi si sia fatto ben poco in tal senso, nonostante vi siano importanti forze politiche che fanno del federalismo fiscale il proprio cavallo di battaglia.
Federalismo fiscale. Un bilancio della riforma
In un famoso saggio del 1951 sull’autonomia (locale), M.S. Giannini scriveva: “io Stato dispongo di questo, per il resto rinvio a quanto dispone il soggetto fornito di autonomia”.
Nonostante siano trascorsi sessant’anni, mi sembra che questa frase sintetizzi ancor oggi il rapporto fra Stato e autonomie locali nel nostro sistema, almeno in ambito finanziario. Diversamente da ciò che accade negli Stati federali, ove si assiste a un dualismo fra autorità pubblica centrale – la federazione – e autorità pubblica locale, il nostro sistema continua a caratterizzarsi per un rapporto gerarchico, ove la potestà sovrana è radicata in capo allo Stato (attraverso la potestà di coordinamento del sistema tributario).
In questa situazione, come è facilmente comprensibile, le garanzie di cui godono le autonomie locali dipendono in larga misura proprio dalle decisioni dello Stato.
Questa situazione non è certamente da imputare al federalismo fiscale, che si limita a definire un(?) modello finanziario dei rapporti fra Stato e autonomie locali, ma trova causa nella forma di Stato e, più specificamente, nella “Costituzione finanziaria” italiana.
Non si può tuttavia sottacere come alcune scelte effettuate nell’attuazione del federalismo fiscale confermino questa visione (ottocentesca) dello Stato sovrano. Uno sguardo d’insieme ai decreti finora approvati consente di confermare questa conclusione.
Mi riferisco, in primo luogo, all’autonomia tributaria di Regioni, Provincie e Comuni. I margini di autonomia concessi sono significativi e riguardano, in varia misura, i soggetti, la base imponibile e l’aliquota dei tributi delle Regioni, Provincie e Comuni. Dal punto di vista quantitativo, dunque, il risultato prodotto dalla riforma è sicuramente apprezzabile.
Tale autonomia, nondimeno, appare una “concessione dello Stato sovrano”. La categoria dei “tributi propri derivati” è, in questo senso, paradigmatica. Questi sono i tributi istituiti e regolati dallo Stato, il quale assegna alle Regioni il gettito e un determinato potere di intervento (sui soggetti, sulla base imponibile, sull'aliquota, ecc.). Di per sé un ossimoro, tale categoria è stata individuata dalla Corte costituzionale nelle more dell’attuazione del federalismo fiscale, e riprodotta nella legge sul federalismo fiscale (e nei decreti attuativi). Mi chiedo se ciò fosse necessario e, soprattutto, perché, in una logica decentrata, tali tributi non siano stati trasformati in tributi propri delle Regioni. La probabile giustificazione è data dall’avversione della maggioranza nei confronti del principale di questi tributi, l’irap, e dell’altrettanto auspicata abrogazione. Se ciò fosse vero, tuttavia, si dovrebbe concludere che la riforma costituisce solo una prima approssimazione del federalismo fiscale, perché destinata a cambiare significativamente nel prossimo futuro (l’irap produce infatti un gettito di circa 30 mld di euro) ma, soprattutto, che i margini del potere tributario regionale continueranno a dipendere dalla scelte statali.
Altri esempi sono il divieto di aumentare l’addizionale irpef nel caso di riduzione dell’aliquota irap (art. 4, comma 3, del decreto approvato dalla Commissione parlamentare) o l’obbligo di esentare dalla futura imu la prima casa e gli enti non commerciali) (art. 8, comma 2 e art. 9, comma 8, del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23). Queste scelte sono sintomatiche dell’ingerenza statale nella politica fiscale delle autonomie e non sono un buon presagio per il futuro poiché sottolineano la natura ottriata dell'autonomia.
Un altro capitolo è quello dell’obiettivo dell’invarianza della pressione fiscale (art. 28, comma 2, lett. b) della legge 5 maggio 2009, n. 42). Anche questo è sintomatico della tesi che si cerca di dimostrare. A parte il fatto che l’autonomia tributaria è in contraddizione con l’invarianza della pressione fiscale, come ampiamente risulta dagli stessi decreti attuativi, lo Stato si assume un ulteriore potere di controllo. Tale potere trova la propria giustificazione nel patto di stabilità europeo ma è efficace esclusivamente nei confronti delle autonomie locali. Mentre la spesa pubblica statale e la pressione fiscale statale non trovano limite (perché non sancito costituzionalmente), le autonomie locali sono vincolate dalla legge statale. Quindi, lo Stato controlla la finanza regionale e locale, ma nessuno controlla lo Stato (o meglio, l’Unione europea controlla gli Stati membri, ma non è sicura garanzia di invarianza della pressione fiscale).
Un’osservazione conclusiva merita il rapporto fra la riforma del federalismo fiscale e la prospettata riforma del sistema tributario statale. Questo tema, sollevato in Commissione bicamerale (per esempio da Baldassarri), è fondamentale per le sorti della riforma. La modifica dei tributi statali, allo stato attuale ancora lontana e indefinita, produrrà infatti reazioni a catena sulla composizione e sulla quantità delle risorse destinate alle autonomie locali. Proprio per il fatto che le risorse delle autonomie consistono, in buona parte, di tributi statali derivati e compartecipazione ai tributi statali, una revisione di quest'ultimi produrrà conseguenze anche sul federalismo fiscale.
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