lunedì 30 luglio 2012

Sclerosi multipla, al via la sperimentazione clinica del “metodo Zamboni”

Finalmente...


Il progetto Brave Dreams del chirurgo vascolare Paolo Zamboni partirà tra pochi giorni. Prima sarà la volta dell'azienda ospedaliera-universitaria di Ferrara, poi dell'Usl di Bologna, successivamente l'ospedale Cannizzaro di Catania e infine altre undici strutture sanitarie distribuite in tutta Italia

di Antonella Beccaria


Si parte con la sperimentazione clinica. Il progetto è quello che va sotto il nome di Brave Dreams (acronimo di Brain venous drainage exploited against multiple sclerosis) e, sotto il coordinamento del chirurgo vascolare Paolo Zamboni dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Ferrara, il suo scopo è quello di verificare gli effetti sulla sclerosi multipla intervenendo per rimuovere le ostruzioni sanguigne determinate dall’insufficienza venosa cronica cerebrospinale (Ccsvi).

L’annuncio ufficiale è stato dato da Carlo Lusenti, assessore regionale alla salute, e con la selezione dei pazienti si partirà a metà della prossima settimana, iniziando nei centri dell’Emilia Romagna che hanno aderito alla sperimentazione, finanziata con 2 milioni e 900 mila dalla Regione stessa lo scorso febbraio. Tra i centri, oltre al presidio ferrarese dove opera il clinico che ha dato il nome alla tecnica di intervento, il “metodo Zamboni”, c’è l’Usl di Bologna. Dopodiché sarà la volta dell’azienda ospedaliera Cannizzaro di Catania e delle 14 strutture su 20 che hanno già ricevuto il nulla osta dai comitati etici dopo l’esame del protocollo la cui stesura è stata coordinata dall’agenzia sanitaria e sociale dell’Emilia-Romagna.

Per quanto riguarda l’inizio della sperimentazione, che era attesa a settimane, l’ok definitivo è giunto dopo che il ministero della Salute si è pronunciato in senso positivo lo scorso 17 luglio. A dare il contributo finale affinché ciò avvenisse un precedente parere, quello della commissione unica dispositivi medici del dicastero, chiamata a esprimersi sull’uso dei palloncini da angioplastica previsti dal protocollo Brave Dreams. A questo punto, dunque, si passerà alla verifica dell’intuizione da cui era partito il professor Zamboni, quando aveva cominciato a studiare la malformazione che impedisce il deflusso del sangue dal cervello e che può portare a ristagni ematici all’interno del cranio con conseguente accumulo di tossine.

La patologia – è stato riscontrato poi anche in centri clinici diversi da quello di Ferrara (tra questi, la Fondazione Don Gnocchi di Milano, l’ospedale Sant’Antonio di Padova e il policlinico Vittorio Emanuele di Catania, oltre a ospedali stranieri) – può presentarsi indipendentemente dalla sclerosi multipla. Ma, sempre secondo i ricercatori che hanno seguito il metodo Zamboni fin dal training ad hoc a cui i medici vascolari vengono sottoposti, i pazienti affetti dalla malattia neurologica degenerativa avrebbero la Cssvi con una frequenza che va oltre il 90%.

Per il clinico ferrarese e per i colleghi che hanno adottato le sue tecniche sia diagnostiche (come l’ecocolor dopler e la flebografia) che terapeutiche (la rimozione delle ostruzioni), esisterebbe la possibilità di beneficiare di effetti positivi sulla sclerosi multipla adottando un approccio vascolare, oltre a quello tradizionale di tipo neurologico. In altre parole, correggendo i problemi di deflusso del sangue nelle vene che non inviano correttamente sangue a polmoni e cuore, si possono ottenere miglioramenti, tra cui miglior qualità di vita, recupero del tono muscolare e almeno parziale ripresa dell’attività fisica.

Una sessantina per centro medico il numero dei pazienti che entrerà nel programma di sperimentazione, che costerà circa 3.500 euro a paziente. La selezione verrà fatta in base alla storia clinica dei candidati, che non devono aver superato uno specifico livello di gravità nella progressione della sclerosi multipla. E ognuno di questi sarà trattato per un anno, al termine del quale si aprirà la fase – dai 18 ai 24 mesi – durante la quale i risultati saranno relazionati alla comunità scientifica.

Si tratta di un momento atteso anche da una onlus, la Ccsvi nella sclerosi multipla, che ha come presidente onorario Nicoletta Mantovani e che nel corso degli ultimi anni ha appoggiato le ricerche di Paolo Zamboni attivandosi sia presso le istituzioni che presso i privati per raccogliere pareri e finanziamenti. Ancora di recente Gisella Pandolfi, presidente nazionale dell’associazione, aveva chiesto che si partisse quanto prima con la sperimentazione per verificare le correlazioni tra le due malattie. E aveva aggiunto: “Noi questo affermiamo e vogliamo: che si prenda atto della ricerca internazionale fin qui compiuta e in continua evoluzione, in un confronto sereno e serio. Ricordiamo che i malati di sclerosi multipla sono oltre 60 mila in Italia e 2 milioni e mezzo nel mondo. Per la maggior parte giovani adulti, due su tre donne”.


Tratto da: http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07/29/metodo-zamboni-al-via-sperimentazione/309802/


sabato 28 luglio 2012

Cooperazione: un modello attuale e credibile

Due giorni per approfondire il modello cooperativo. E per riflettere sulla sua attualità. Riva del Garda ha ospitato il convegno sulla cooperazione nell’anno internazionale proclamato dall’Onu. Una visione del mondo che ha ancora molto da dire alla società in crisi economica e di valori.

di Walter Liber


La cooperazione come risposta ai fallimenti del mercato e alle crisi della società? Scordatevelo, non è di questo che si è parlato a Riva del Garda. No al modello che vorrebbe la cooperazione correre in aiuto alle società di capitale che licenziano ai primi segnali di crisi, no ad una cooperazione emarginata a fare da supplenza per i periodi critici, e magari tornare nell’oblio quando le cose vanno bene.
Sì invece ad una cooperazione che interpreta con lucidità, innovazione e responsabilità una società alla ricerca di nuovi valori ed orizzonti, che si interroga sul proprio modello e ridefinisce la propria missione.
In realtà anche la crisi di cui stiamo vivendo le fasi più drammatiche ci insegna che serve una visione nuova del vivere civile, del fare impresa, dell’essere in rapporto con gli altri. “L'impresa capitalistica da sola non ha futuro, serve la diversità”, ha detto lo storico dell’economia Giulio Sapelli, uno dei relatori di punta al convegno di Riva. “Le società non stanno insieme sui conflitti, serve l'amore gli uni per gli altri.
Il bene comune consente al mercato di funzionare, lo tempera. Le società funzionano bene se hanno una economia polifonica”.
Lo hanno spiegato bene illustri studiosi che si sono avvicendati sul palco. Mauro Magatti, preside di Sociologia alla Cattolica di Milano, non nasconde che “i livelli di diseguaglianza sono aumentati in tutti i paesi occidentali. È come se le economie mature avessero segato il ramo su cui erano sedute”. Veniamo fuori da un ventennio in cui i tecnicismi ci hanno abituato ad avere tutto. La finanza che correva dietro ai debitori ha provocato alla fine la bolla immobiliare negli Stati Uniti, quando i debitori non sono più riusciti a pagare i loro debiti. Con le conseguenze a tutti note.
E allora, come si fa a tenere su l'economia e ripagare il debito nello stesso tempo? Di nuovo Magatti: “la solidità della crescita economica passa attraverso lo sviluppo di una comunità. Occorre delineare un nuovo orizzonte di senso, sapendo che la crescita della società non può significare espansione. Essere competitivi è una condizione necessaria, ma non può essere la motivazione”.
Centrale sarà sempre di più il tema delle alleanze. Occorre individuare, oggi nuove categorie di beni da mettere accanto a quelli materiali: ad esempio l'ambiente, la qualità della vita, i beni relazionali. Tanto spazio che è ancora inesplorato, e sui cui la cooperazione ha molto da dire.
Un economista tra i più convinti della validità del modello cooperativo come Stefano Zamagni ha spiegato molto bene a quattrocento studenti trentini la specificità cooperativa rispetto all’impresa capitalistica.
“il capitalista massimizza il profitto, il cooperatore condivide i fini. Nell’azione comune ognuno mantiene la titolarità delle proprie azioni, di cui è responsabile”.


La (bio)diversità cooperativa, un valore

“La filosofia cooperativa è moderna e post moderna – ha ricordato il direttore della Federazione Carlo Dellasega introducendo la tavola rotonda internazionale sulla diversità cooperativa – gli individui vincono se stanno insieme”. “Stiamo passando da un modello economico interamente basato sul mercato – ha osservato Carlo Borzaga, presidente di Euricse – a un altro modello dove, probabilmente, consumeremo meno beni e dove la domanda di qualità sarà maggiore della quantità”.
Maria Mercedes Placencia, sottosegretario al ministero dello sviluppo sociale dell’Ecuador, ha portato l’esperienza del paese sudamericano in cui il modello cooperativo di economia solidale rappresenta l’ossatura di un grande progetto di sviluppo economico e sociale. In Ecuador, su quasi 22 mila società di economia popolare e solidale, il 31% è cooperativa pari a 6.979 realtà. Rappresentano il 40% dell’occupazione nazionale.
In Inghilterra, negli ultimi vent’anni, si è assistito a un autentico rinascimento delle cooperative. Tutto è partito dalla creazione di una banca cooperativa. “Quell’esperienza – ha affermato Linda Shaw, vicedirettrice di Co-operative College di Manchester – ha fatto da traino per un revival di questa forma di impresa che esprime numeri importanti in particolare nel settore del consumo”.
“Sostanzialmente i vantaggi della presenza cooperativa nel mercato – ha concluso Borzaga – sono riassumibili nella maggiore libertà data alle persone, nell’avvicinare la produzione ai bisogni reali, nel garantire livelli di concorrenza più elevata a beneficio del consumatore”. Borzaga ha anche dimostrato con i numeri che laddove, in Italia, c’è maggiore intensità di credito cooperativo, il tasso di interesse dei prestiti cala e l’interesse sui depositi cresce a tutto vantaggio del risparmiatore.

domenica 22 luglio 2012

Giustizia, libertà, felicità - Zamagni

Lavorare in una cooperativa è una scelta di giustizia, che esprime libertà e porta alla felicità.
Ha detto così il professor Stefano Zamagni ai 400 studenti trentini che si sono recati a Riva del Garda con i loro insegnanti per ascoltare la lezione dell’economista. Sul palco, prima di lui, i ragazzi avevano presentato i loro progetti di educazione cooperativa portati avanti nelle scuole dalla Federazione insieme alla Provincia.

Giustizia, libertà, felicità
“Un giovane che ama la giustizia farà fatica a lavorare nelle imprese di tipo capitalistico – ha detto l’economista –. Le diseguaglianze sono fortissime: chi vince diventa super-ricco, chi perde viene annientato. I giovani sono per natura avversi alle ingiustizie e non possono avere l’efficienza esasperata come unico obiettivo di vita”. E poi la libertà. “La vera libertà non è quella di scegliere ma di poter scegliere. Chi ama lalibertà ne accetta di rischi. Chi vuole la sicurezza vende quote di libertà e accetta il lavoro dipendente. Per questo il modo migliore per far avvicinare un giovane alla cooperazione è quello di fargli amare la libertà”. Lavorare in cooperativa, poi porta alla felicità, che è cosa diversa dall’utilità, che è collegata al possesso delle cose. “La felicità riguarda le relazioni tra persone: per essere felici bisogna essere almeno in due”. Secondo Zamagni all’interno degli ambienti di lavoro delle imprese capitalistiche le relazioni vengono limitate quando non addirittura evitate del tutto, perché considerate dannosi perditempo. “Così si uccide la felicità – ha detto –. La cooperazione ti consente (non garantisce) di tradurre in pratica giustizia libertà e felicità”.

L’origine della cooperazione
Alla base del capitalismo c’è l’idea di Thomas Hobbes secondo cui la natura umana è egoista. “In quel mondo – ha detto il professore – l’uomo è lupo contro gli altri. Questa concezione di impresa è risultata vincente fino a metà dell’Ottocento, quando come reazione a quest’approccio è nata la cooperazione”. Le prime cooperative sono state di consumo: spacci alimentari che vendevano ai soci a prezzi accessibili. Una risposta contro la miseria. “Questa origine – ha spiegato Zamagni – ha avuto un effetto di trascinamento che non ha giovato alla causa cooperativa. Ha fatto credere a intere generazioni di studiosi e di politici che la forma cooperativa fosse minore”. Lo stesso articolo 45 della Costituzione che parla di cooperazione ne cita la sua funzione sociale, perché la funzione economica è considerata appannaggio esclusivo delle imprese capitalistica: le imprese creano ricchezza, le cooperative redistribuiscono. “Allora questa differenziazione era giustificata oggi no – ha aggiunto –. Oggi dobbiamo recuperare il terreno perduto. Guai a dissociare l’economico dal sociale.
È un tentativo di delegittimare. La cooperazione è una forma superiore rispetto alla capitalistica: riesce a redistribuire ricchezza mentre la produce. Se esistessero solo imprese cooperative non ci sarebbe bisogno di welfare state, che è nato per il fallimento del mercato capitalistico”.

La differenza delle cooperative
In ogni impresa tutti sono consapevoli che ognuno ha bisogno dell’altro; ciascuno mantiene la responsabilità delle proprie azioni e tutti tendono al raggiungimento di un obiettivo comune. Nell’impresa capitalistica la comunione si ferma ai mezzi: il capitalista vuole massimizzare il profitto, il lavoratore massimizzare il salario. Uno ha bisogno dell’altro.
Nella cooperativa la comunanza si estende ai fini. Ne consegue che il modo di gestire e governare l’impresa sarà diverso: non la gerarchia ma l’autorevolezza.
“Il movimento cooperativo – ha suggerito il docente – deve mettere in atto delle strategie di protezione della propria identità. La tentazione di alzare le braccia e trasformarsi in imprese capitalistiche è forte.
L’antidoto è agire a livello culturale, anche rafforzando le reti, le forme di organizzazione orizzontale che fanno parlare di distretto cooperativo”.

di Dirce Pradella
Tratto da: Cooperazione Trentina n°4 Aprile 2012

mercoledì 18 luglio 2012

Cosa portiamo a casa da Riva

Abbiamo fatto un azzardo e un po’ tremato ma, alla fine, possiamo dire che il Convegno di Riva del Garda dal titolo “La cooperazione per un mondo migliore”, è stato un successo.
Abbiamo voluto aprirlo con la mattinata dedicata ai ragazzi delle scuole superiori, ai loro docenti, ai loro dirigenti e ai loro genitori. E’ stato molto importante e speriamo di aver contribuito a “seminare”. La parte dove i giovani studenti sono stati i protagonisti è stata molto bella ed entusiasmante. La fatica di due giorni di relazioni e interventi è stata sopportata da moltissimi cooperatori attenti e la cosa ci riempie di soddisfazione perché la forte riflessione era diretta a noi soci. Si è scelto di valorizzare l’anno della cooperazione non attraverso una celebrazione ma puntando sull’analisi della situazione a livello macro e sui compiti nuovi o rinnovati che la proposta cooperativa ha di fronte.
Tutti gli autorevoli intervenuti nel convegno hanno sostanzialmente concordato sul punto che sempre di più viene riportato in evidenza da filoni di pensiero fra loro anche molto diversi ma che hanno al centro la preoccupazione intorno alla libertà degli uomini e delle donne, sull’attenzione da focalizzare circa i bisogni della persona, sull’impegno per la non marginalizzazione e la povertà di ampie fasce della popolazione mondiale. Oggi le grandi religioni e quelle minori, il pensiero sociale laico, l’economia e la politica alte, convergono sulla convinzione che o riusciamo ad apportare sostanziali riforme alla logica dell’accumulazione, alle modalità della crescita e cerchiamo di ragionare e concretizzare stili di sviluppo che effettivamente vadano a beneficio della maggioranza, oppure, se la strada è unicamente questa che conosciamo, la certezza è che, prima o poi, si va a sbattere e violentemente.
La “pratica cooperativa” deve prima affiancarsi e progressivamente sostituire la “pratica della competizione”. Abbiamo visto che anche con le più buone intenzioni il mercato è difficilmente regolabile. Tutta la discussione sulle norme da applicare al mercato è sostanzialmente falsa. Il mercato capitalistico è questo. La storia ha dimostrato che ci possono essere altri tipi di mercato e mi riferisco alla situazione precedente l’avvento dell’industrializzazione, ma sono per l’appunto “altri”. Quindi se pensiamo a qualche cosa di libero ma diverso, la forma che si evidenzia in prima istanza è la cooperativa.
Il contrario esatto della posizione residuale che si vorrebbe riservarle. Un’altra questione è uscita con forza e trova conferma anche nella “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI. Dice l’enciclica: Va tuttavia sottolineato come non sia sufficiente progredire solo da un punto di vista economico e tecnologico. Bisogna che lo sviluppo sia anzitutto vero e integrale. L’uscita dalla arretratezza economica, un dato in sé positivo, non risolve la complessa problematica della promozione dell’uomo. Il perseguimento, da parte del movimento cooperativo, del pensiero globale come “superiore” e necessario rispetto al pensiero tecnologico e specialistico, è anch’esso un modo per affrontare la realtà non solo dal punto di vista del desiderio dei mercati, che sono soggetti in carne ed ossa con precise ideologie e strategie di accumulazione, ma da quello delle persone comuni e delle loro legittime aspirazioni ed esigenze.
Per l’autunno abbiamo messo in cantiere ulteriori spazi di pensiero in occasione anche del 120esimo anniversario della Cooperazione di Credito Trentino. Crediamo sarà necessario che le considerazioni sulla concretezza cooperativa si trasformino in ragionamenti e comunicazione circa il peso economico effettivo della cooperazione nel contesto del nostro territorio e sulle strategie necessarie per consolidarla ulteriormente.

diego.schelfi@ftcoop.it

Tratto dalla rivista: Cooperazione Trentina. N°4 – Aprile 2012

sabato 7 luglio 2012

Il consumo collaborativo e altri interessanti interventi - TED

Il consumo e la produzione non sono più separati come nella tradizione industriale. Qualunque asset che una persona ha comprato può essere messo in produzione come avviene quando le persone affittano una stanza della loro casa con Airbnb. Ne parla Rachel Botsman, coautrice di "What's mine is yours" sul consumo collaborativo, a TED Global. Che porta vari esempi di autoimpiego part-time per integrare le entrate mettendo a frutto le proprie capacità. Come montare i mobili dell'Ikea per gli altri, per esempio. «Tutto il processo dipende dalla capacità di costruire un sistema di fiducia». Airbnb è riuscita a sviluppare un sistema abbastanza accettato ed era necessario perché si doveva ospitare qualcuno nella casa. «La reputazione è essenzialmente contestuale. Non c'è un solo algoritmo che serva a costruire la reputazione. L'insieme di notizie che si raccolgono online la costruisce. La reputazione diventerà una sorta di nuova moneta, più potente della nostra storia di clienti della banca. È un capitale molto complesso. Ci sono siti che costruiscono reputazione sulle persone somministrando questionari alle persone che le conoscono». Citazione di Mark Pagel, Wired for culture: «A good reputation can be used to buy cooperation from others».

Robin Chase, fondatrice di Zipcar, ha portato il car sharing a un nuovo livello e ha portato il concetto dall'America a Parigi e sviluppa l'idea del capitalismo cooperativo. Il valore è condiviso: peers incorporated. L'organizzazione crea economie di scala le persone creano il valore. Le automobili condivise per esempio muovono ogni giorno più persone del Tgv. E nessuno ha dovuto comprare l'auto. È tutto fatto con la capacità in eccesso. Etsy serve a vendere cose fatte in casa. Ora Chase guida Buzzcar. «Ora sappiamo come fare. Devi creare siti nei quali entrambi i lati dello scambio trovano tutto quello che serve». Coinvolgendo i peer, si ottiene un'organizzazione nella quale un sacco di gente ci lavora cercando il proprio vantaggio e portando vantaggio all'insieme, influenza l'organizzazione, genera innovazione. «Tutto quello che serve è fare una piattaforma che funziona bene, chiara e trasparente, nella quale tutti possono facilmente partecipare».

Amy Cuddy psicologa sociale, si occupa di body language: comunicazione e gesti, non solo per i suoi studi sulla negoziazione ad Harvard. I messaggi non verbali influenzano si compiono e si interpretano coinvolgendo tutto il corpo. Ci sono gesti universali: ti senti forte, hai vinto, fai un gesto di grandezza alzando le braccia; ti senti debole, ti fai piccolo e chiudi le braccia intorno al corpo... Questo vale sia per gli umani che per i primati. «C'è purtroppo anche un gender gap in questo fenomeno. Le donne fanno più spesso gesti di debolezza che di potenza». Ma i messaggi non verbali generano anche qualcosa dentro di noi? «Fare un gesto forzato di gioia in effetti genera gioia. Fare un gesto di potere in effetti genera un senso di potere». Le menti dei potenti sono più fiduciose e ottimiste, prendono più rischi. Le menti dei deboli le portano a lanciare gesti e messaggi non verbali le le conducono a indebolirsi ulteriormente. La scienza dice che questo si può correggere.

Jason McCue, avvocato, fondatore di H2O che si occupa di management della reputazione. E parla di come fidarsi degli sconosciuti. Possono essere terroristi. La risposta della società è cercare di conoscere meglio le persone. Ma anche rispondere contro il terrorismo. E la prima mossa è coinvolgere le vittime. Smettere di essere reattivi e diventare proattivi.

Segue Marco Tempest, una star di TED. Prestigiatore a base tecnologica.

Il programma prevede poi Jane McGonigal, autrice di "Reality is broken", che ha alimentato il movimento per i giochi seri che hanno la capacità di motivare le persone a partecipare a impegni collettivi. Nell'ultimo talk a TED di McGonigal aveva sostenuto che si possono passare più ore a giocare. Molte reazioni negative, basate sull'idea che il gioco è perdere tempo. Ma McGonigal riporta i risultati scientifici che dicono che i rimpianti più grandi delle persone in punto di morte sono concentrati sull'idea che si sarebbe dovuto passare più tempo con gli amici o a esprimersi più liberamente o a cercare di essere felice; e meno a lavorare. Il gioco è uno dei modi più chiari per essere se stessi, coltivare la felicità e gli amici. McGonigal racconta una sua esperienza personale ai confini con la morte. E di come ne è uscita disegnando un gioco. (Interruzione del collegamento elettrico: il discorso di McGonigal salta a questo punto...).

di Luca De Biase


tratto da: http://lucadebiase.nova100.ilsole24ore.com/2012/06/parla-con-gli-sconosciuti-ted-global.html

venerdì 6 luglio 2012

Il Potere della Paura - Canale Youtube

L'ultimo video caricato sul canale youtube è l'ottimo documentario della BBC "Il potere della paura", riproposto in Italia da "La storia siamo noi" di Giovanni Minoli.


Costruire un mondo migliore. Da sempre la promessa di qualunque politico. Ognuno, naturalmente, seguendo una propria strada, tutti però con la certezza che questa promessa li avrebbe portati ad una certa autorevolezza ed autorità.



Nel tempo, tuttavia, quella promessa si è rilevata un'illusione. Oggi la gente, ha smarrito qualunque fede residua nelle ideologie ed i politici vengono considerati come dei semplici amministratori. Ma da qualche tempo a questa parte, la politica sembra aver scoperto un nuovo modo per instaurare di nuovo il potere e l'autorità. Ad aggregare il consenso, oggi, non è più una promessa di prosperità. Oggi ad essere venduta è una promessa dalla protezione dagli incubi moderni. I politici ci promettono che ci salveranno da pericoli terribili che nemmeno riusciamo a vedere,o a comprendere e tra questi ovviamente nessuno è temibile come il terrorismo. Una rete potente, quanto sinistra con cellule dormienti in molti paesi del mondo. Una minaccia che richiede una sola risposta: la guerra. In realtà questa minaccia è una pura fantasia, una realtà dilatata e distorta ad uso e consumo degli stessi politici, un abbaglio che si è subdolamente diffuso e fatto strada tra i governi, i servizi segreti ed i mezzi di comunicazione di gran parte del mondo. Questo documentario vuole spiegare come e perché tale abbaglio si è diffuso e chi ne trae vantaggio. A l centro di questa storia ci sono due gruppi: i neo-conservatori americani ed i fondamentalisti islamici.



Entrambi questi gruppi sono formati da idealisti delusi dal fallimento del sogno liberale di un mondo migliore. Entrambi inoltre danno una spiegazione molto simile del motivo che ha causato questo fallimento.Questi due gruppi hanno cambiato il mondo, ma in modo assai diverso da quello che essi pensavano. Eppure hanno contribuito alla creazione di un incubo, quello di un organizzazione segreta che minaccia il mondo intero, un mito che i politici hanno immediatamente sfruttato per ritrovare quell'autirità e quel potere che avevano perduto e peggiore è la paura e maggiore è il potere.


mercoledì 4 luglio 2012

QUELLA MONETA CHIAMATA WIR

Ottimo articolo sulle potenzialità e il significato della banca "Wir" e della cooperazione.
Tratto dall'interessante rivista "Libertaria"

di Massimo Amato

Uno dei percorsi per uscire dalla crisi? Dare alle relazioni finanziarie un’impronta cooperativistica. Cioè quel modo di relazionarsi che affonda le radici nella storia dei movimenti popolari. Un esempio? Una moneta locale molto in uso in Svizzera: il Wir. Ecco come funziona quella moneta ideata da Werner Zimmermann, fondatore della banca cooperativa Wir. Attiva da quasi settant’anni. L’analizza Massimo Amato che insegna storia economica all’università Bocconi di Milano ed è autore con Luca Fantacci di Fine della finanza (2009) e di Il bivio della moneta (1999), Le radici di una fede (2008).



Vale la pena dirlo ancora una volta con chiarezza, a costo di apparire ripetitivi: la crisi che non accenna minimamente a finire non ha a che fare né soltanto con una congiuntura particolarmente sfavorevole né soltanto con i comportamenti particolarmente antisociali di alcuni esponenti del «capitale». È la crisi di un modo di erogare il credito che si fonda sulla rescissione del rapporto, necessariamente locale e individuale, fra creditore e debitore, e sulla sua dissoluzione nel reticolo globale e anonimo dei mercati finanziari.

Uscire dalla crisi implica che si provi a ricostituire questo rapporto a partire da ciò che ne costituisce l’essenza. Potrebbe essere, infatti, che il credito rettamente inteso non sia affatto un’erogazione di denaro a condizioni più o meno onerose entro un mercato tanto più efficiente quanto più esteso, ma innanzitutto la messa in atto di un rapporto di cooperazione. La necessità sempre più impellente di uscire dalla crisi non implica affatto un ritorno al passato, né tanto meno una chiusura nel «localismo», ma la possibilità di dare alle relazioni finanziarie un’impronta schiettamente cooperativa.

La tradizione del credito cooperativo affonda le radici nella storia dei movimenti popolari, cristiani, socialisti e anarchici, ed è riuscita, anche se con difficoltà crescenti, a mantenere viva la propria differenza rispetto al credito bancario fondato sulla moneta-merce, ossia sull’idea che il credito sia una fattispecie particolare della compravendita di merci. In realtà, se si fa attenzione alle effettive poste in gioco della finanza nel suo rapporto con l’economia reale, una banca cooperativa è incomparabilmente più adeguata di una banca normale a svolgere il ruolo che volentieri si attribuisce a ogni operatore finanziario, ossia quello di intermediario.

Nel caso della compravendita, l’intermediario è colui che fa incontrare un compratore e un venditore, al fine di facilitare il perfezionamento degli scambi di beni, contro beni o contro moneta. Ma se, semplicemente, ci atteniamo al fatto che la relazione di debito-credito non è un rapporto di compravendita, allora il ruolo del mediatore diviene ancora di più decisivo. Non si tratta solo di far incontrare debitori e creditori, ma anche di farli incontrare in modo tale che essi possano collaborare fra di loro, e in modo tale che l’attività di mediazione non assuma il carattere autonomo e autoreferenziale di un’attività a scopo di lucro.


Cos’è una banca?

Contro ogni apparenza derivante dal modello dottrinario che si è imposto negli ultimi decenni, senza che peraltro attorno e contro tale operazione si accendesse un dibattito, anzi grazie al soffocamento del dibattito sul piano teorico e mediatico, una banca non è un’impresa come le altre, il cui valore i suoi azionisti avrebbero il diritto di vedere costantemente aumentato, sulla base di flussi scontati di profitti futuri. Una banca non è un capitale da far fruttare. E tanto meno lo è una banca cooperativa. Certo si tratta di un’attività economica, vincolata al raggiungimento e al mantenimento di un bilancio che non sia in perdita. Ma, proprio perché il suo scopo è l’intermediazione, la sua efficienza non si misura sui suoi profitti, ma sul raggiungimento del più alto livello possibile di cooperazione fra debitori e creditori.

Tale cooperazione non ha nulla di crocerossino: un debitore coopera facendo tutto ciò che è in suo potere per mantenersi solvibile e per non indebitarsi al di là delle sue possibilità. Ma un creditore, a sua volta, coopera facendo in modo che il debitore possa ogni volta realmente pagare.

Tale cooperazione non solo ha ragioni economiche profonde, che non sono certo sfuggite a John Maynard Keynes, ma tocca radici ben più profonde. Il credito cooperativo è uno dei pilastri di una società libertaria, nel senso non tanto di una società senza poteri, ma di una società che opera per la riduzione a zero di ogni forma di autorità di comando. La costituzione del rapporto di credito in termini cooperativi è la via più diretta per abolire quella forma di autorità di comando che è la rendita (il potere di chi non lavora su chi lavora) e ciò restando sul pia- no economico e senza dovere operare amputazioni violente di interessi costituiti o di supposti diritti.

Che il creditore debba collaborare con il debitore a rendere possibile il pagamento dei debiti, è un fatto sociale che toglie in via di principio ogni superbia al «risparmiatore» e ogni sua pretesa di vedersi remunerato per il solo fatto che concede in prestito una moneta precedentemente accumulata. Il risparmio è una virtù borghese. Non è mai stata una virtù cristiana e non sarà mai una virtù autenticamente socialista. La cooperazione sì.


Arriva Zimmermann

Questo è quanto sapeva Werner Zimmermann, il fondatore di una banca cooperativa che da quasi settant’anni opera con una moneta locale nella patria della banca borghese.
Si tratta della banca cooperativa svizzera Wir.
Wir sta per «Wirtschaftsring», ossia «circuito dell’economia», ma in tedesco significa anche, più semplicemente, «noi». Zimmermann sapeva che il «noi» di una società cooperativa si costruisce anche istituendo un circuito economico. Amico di Silvio Gesell, l’economista radicale che proponeva la moneta a scomparsa, ossia una moneta a cui il tratto della merce e della riserva di valore fosse tolto per istituzione attraverso un tasso di interesse negativo da applicarsi alla sua pura e semplice detenzione, Zimmermann non è un teorico particolarmente importante. Ma è un uomo che non si tira indietro di fronte a un compito politico fondamentale. E lo fa in un momento in cui la crisi economica indurisce la già dura vita degli uomini in un regime capitalista. Wir viene fondata nel 1934, in un momento in cui la Svizzera conosce tassi di disoccupazione del 40 per cento e in cui le banche, esattamente come ora, non erogano credito a nessuno, tanto meno alle piccole e medie imprese.

I soci fondatori sono inizialmente sedici. Ora, dopo settant’anni di attività, Wir è la banca cooperativa di riferimento di 70 mila piccole e medie imprese che operano soprattutto nella Svizzera tedesca.
Con il tempo Wir ha aggiunto nuove forme di attività bancaria, ma il cuore del suo sistema cooperativo è il credito in compensazione sulla base di una contabilità in una moneta di conto locale, il Wir.

Il meccanismo è semplice: ogni socio Wir ha un conto in Wir, e accetta di essere «pagato» in questa moneta, che gli viene accreditata sul suo conto. Metto le virgolette perché questo pagamento sui generi sè in effetti una concessione di credito alla controparte, posto che i Wir non circolano all’e- sterno della banca e non hanno un controvalore in franchi svizzeri, ma solo un’equivalenza contabile con la moneta ufficiale (un Wir equivale a un franco svizzero).

La transazione fra i due soci si configura dunque come una concessione di credito da parte di chi accetta i Wir e come un finanziamento per chi con essi paga. Dal punto di vista contabile il conto corrente del primo ha una posta attiva pari alla posta passiva del secondo. Ma dal momento che si tratta di un circuito, e che i soci sono molti, il socio con un credito potrà spenderlo con altri soci che accetteranno i Wir in pagamento; il socio con un debito potrà ragionevolmente sperare di entrare nella catena dei pagamenti fra soci, compensando il suo debito in Wir con un credito a fronte di una cessione di beni o servizi. In linea di principio, dunque, tutti i conti correnti dei soci tendono al pareggio fra poste attive e passive. Ma questa convergenza dei bilanci verso il pareggio rende possibile nel tempo lo sviluppo di transazioni reali, in beni e servizi, che senza quel credito e debito inizialmente reciprocamente concessi non sarebbero semplicemente state possibili.

La tendenza al pareggio è in effetti l’unico criterio di gestione prudenziale di un sistema che non ha bisogno di riserve per poter erogare credito. Operativamente ciò implica che ogni correntista deve accettare una quantità di Wir non superiore a quella che potrà spendere. Se tutti si attengono a tale principio, è verosimile che ogni debito possa essere pagato semplicemente attraverso il meccanismo della spesa dei Wir.

I Wir, in altri termini, non si possono accumulare, nel senso che non c’è nessuna tendenza nel sistema a lasciare inoperante il potere d’acquisto incarnato dai Wir. E non tanto perché ciò sia vietato, ma perché la detenzione indefinita di potere d’acquisto in Wir non è economicamente efficiente, dal momento che nessun interesse positivo è percepito sugli attivi. Ogni somma accumulata in Wir perde, in termini comparativi, interesse che potrebbe guadagnare al di fuori della banca se fosse possibile convertirla in franchi ufficiali. Posto che tale conversione è statutariamente impossibile, l’unico modo economicamente sensato di usare i crediti Wir è spenderli, alimentando così il circuito.

Ci si potrebbe chiedere che cosa induca un’impresa a entrare nel circuito, e ad accettare di guadagnare crediti in Wir, posto che questi ultimi non fruttano interessi e possono essere spesi soltanto all’interno del circuito stesso. La risposta è semplice: così come chi ottiene un prestito in Wir può acquistare ciò che altrimenti non sarebbe riuscito a permettersi, simmetricamente chi accetta di guadagnare un credito in Wir può vendere ciò che altrimenti non sarebbe riuscito a smerciare. Il credito in compensazione, reso possibile dal circuito Wir, offre dunque vantaggi speculari a creditori e debitori.

Ecco l’elemento cooperativo: non solo il credito si forma come dilazione di pagamento, e quindi come «aiuto» al debitore, ma, nella misura in cui è necessariamente speso, esso stimola un circuito di scambi che rende assai probabile che il debitore possa rientrare dal suo debito. Assai probabile perché in un sistema economico locale sufficientemente articolato non esistono operatori che abbiano solo clienti o solo fornitori, e quindi non esistono operatori che rischino di essere solo creditori e solo debitori.

Nato come sistema di credito in compensazione fra imprese, il sistema si è arricchito di altri aspetti. Da una parte i crediti Wir possono essere ceduti dalle imprese ai loro dipendenti, per esempio come premi di produzione; dal momento che fra le imprese aderenti al circuito ve ne sono molte che offrono prodotti di consumo (e segnatamente servizi alberghieri e di ristorazione, ma in generale tutti i servizi artigianali per la persona e per la casa), ogni privato possessore di Wir trova sempre il modo di spenderli. La Banca Wir emette una carta di debito che serve per effettuare tali pagamenti in Wir, che possono variare da un minimo del 30 per cento a un massimo del 100 per cento della somma. Di fatto i privati vengono inseriti nel circuito di compensazione rendendolo ancora più fluido. Si può immaginare infatti la seguente semplice triangolazione: un ristoratore paga i suoi fornitori in Wir, questi ultimi pagano parte del lavoro dei loro dipendenti in Wir e i dipendenti li spendono presso il ristoratore. Ma si tratta solo di un esempio. La compensazione è multilaterale: tutti sono potenzialmente in rapporto con tutti, e mai una transazione per la quale vi sia da una parte qualcuno disposto a vendere e dall’altra qualcuno disposto ad acquistare è resa impossibile da una mancanza di denaro. Del resto è proprio così che il circuito Wir ha potuto allargarsi costantemente: di fronte all’alternativa di perdere un affare o di accettare in parte dei Wir in pagamento nessun operatore economico sano ha esitazioni. Sono i clienti Wir a far affluire altri clienti nel circuito…

D’altra parte la Banca Wir svolge anche un’attività di raccolta e prestito in franchi svizzeri. Nel 2009 il credito complessivamente erogato è stato pari a 3,719 miliardi di franchi, di cui 876,3 milioni in Wir. Il circuito in Wir rende possibile una copertura dei costi di gestione della banca, semplicemente tramite il pagamento di commissioni sulle operazioni, che rendono inutile la richiesta di interessi da parte della banca, la quale, per i prestiti in Wir non deve rifornirsi di liquidità sul mercato, e dunque, posto che si tratti di una banca cooperativa senza scopo di lucro, i crediti in franchi svizzeri sono erogati a tassi molto inferiori rispetto ai tassi normalmente praticati dalle banche. Il tasso sui mutui immobiliari oscilla presso Wir da un minimo dell’1 per cento a un massimo dell’1,75 per cento. Di fatto non si tratta nemmeno di un tasso di interesse, ma della copertura delle spese di istruzione della pratica di credito.

Ma non solo: si tratta di apprezzare con più precisione il fatto che questa forma di erogazione del credito è al riparo dalle fluttuazioni del ciclo economico. Nella fase bassa della congiuntura anche i tassi delle altre banche sono formalmente bassi… salvo che le banche esitano a concedere mutui. Nella fase alta della congiuntura (come per esempio fino alla fine del 2007, quando le banche con- cedono credito anche a chi non sarà mai in grado di ripagare i suoi debiti), invece, lo spread fra i tassi di mercato e i tassi Wir diviene consistente.


Umanizzare l’economia

Infine vale la pena approfondire quanto osservato fra parentesi. Il sistema della liquidità rende non solo possibile ma anche necessaria, in fasi di espansione, l’inclusione nei circuiti del credito anche di quelli che sono detti subprime borrowers. La liquidità è talmente elevata che si presta anche a chi non se lo merita. L’innegabile (anche se effimero) vantaggio goduto da costoro ha fatto elevare dagli apologeti del sistema della liquidità alti peana alla funzione sociale dei mercati finanziari, capaci di «prestare anche ai poveri». Ma questo modo di «prendersi cura» dei soggetti economicamente deboli non fa che indebolirli: prima togliendo loro ogni dignità, poi togliendo loro anche la casa. In effetti, l’unico modo per rendere «bancabili i poveri» è smettere di pretendere che essi paghino rendite ai possessori di moneta. L’abbassamento sistematico dei tassi di interesse da parte di Wir è una via sana, l’unica, in realtà, e proprio perché non soggetta alle oscillazioni capricciose del ciclo economico, alla «democratizzazione della finanza».

L’esperienza di Wir è radicata nel contesto svizzero, ma i suoi elementi costitutivi sono in tutto e per tutto replicabili in altri contesti, culturali, legali e politici. L’unica cosa che serve è prendere sul serio ciò che è racchiuso nella semplice parola «cooperazione». Non va dimenticato che l’intento che animava Zimmermann e i suoi amici era una riforma ben più complessiva della società, in vista della costituzione di forme di convivenza fondate sulla semplice idea che la cooperazione non è una nozione vagamente «economica», ma che solo essa può dare alla parola economia tutta la familiarità e tutta la legalità di cui ha bisogno per poter risuonare umanamente.

lunedì 2 luglio 2012

International Year of Cooperatives 2012 - Join the Revolution

Gli “anni internazionali” sono dichiarati dalle Nazioni Unite per attirare l’attenzione su temi di primaria importanza e incoraggiare delle iniziative a riguardo.
L’anno internazionale delle cooperative (2012) ha l’intento di accrescere la consapevolezza degli immensi contributi che le imprese cooperative apportano alla società: riduzione della povertà, democratizzazione della società, creazione di posti di lavoro, salvaguardia e miglioramento del tessuto sociale ecc.
L’Anno servirà anche a sottolineare la solidità del modello d’impresa cooperativa, e il ruolo che esso potrà ricoprire in futuro per lo sviluppo socio-economico a livello internazionale.

International Year of Cooperatives 2012



The Co-operative Ethical Plan - Join the Revolution