venerdì 29 giugno 2012

A Bruxelles l’ “altro” Consiglio Europeo - Another road for europe? may be

Centocinquanta persone provenienti da differenti Paesi di tutto il Continente hanno partecipato giovedì 28 giugno a Bruxelles, in un’aula del Parlamento Europeo, al Forum “Another Road for Europe” (in appendice l’elenco delle realtà presenti). Data e luogo scelti non a caso: il giorno d’avvio del decisivo vertice del Consiglio d’Europa, a meno di trecento metri dall’edificio dove sono in riunione i Capi di governo degli stati dell’Unione per discutere di crisi dell’Eurozona.

Il Forum, nato dall’omonimo appello e introdotto dagli interventi dei promotori Rossana Rossanda e Mario Pianta, ha visto un confronto a tutto campo tra economisti, sociologi e politologi insieme ad esponenti dei movimenti sociali, delle organizzazioni sindacali, della società civile, con partiti e parlamentari europei (Verdi e Sinistra, ma anche Socialisti e democratici, compreso qualche nostrano PD). E’ impossibile dare qui conto per intero della ricchezza della discussione, prolungatasi per quasi dieci ore, ma cercheremo di segnalarne gli spunti più significativi.


DOMARE LA FINANZA

Il Forum si è articolato in tre sessioni di lavoro. La prima, dedicata a moneta unica, mercati finanziari, debito e politiche fiscali, è stata introdotta da Trevor Evans (della rete di economisti che redigono periodicamente il rapporto Euromemorandum) con un intervento che ha denunciato la condizione di “democrazia sospesa” a fronte dello strapotere della finanza e sottolineato come il dibattito ufficiale sia condizionato a monte da un’ “analisi fuorviante del problema”, in cui viene rimosso come l’origine della crisi del debito sovrano europeo sia da collocare nella crisi dei mutui statunitensi del biennio 2007-2008. Le banche europee sono state “affogate dai sub-prime” che avevano cartolarizzato, gli Stati europei sono corsi in loro soccorso facendo lievitare il debito pubblico e le minori entrate fiscali, in conseguenza della recessione di produzione e consumi, hanno fatto il resto.

A partire da questa lettura, Evans ha presentato una serie di proposte, poi in parte riprese e sintetizzate nel comunicato finale, tra le quali l’introduzione della settimana lavorativa di trenta ore, strumenti di “controllo sociale delle multinazionali” (l’attenzione critica è stata soprattutto puntata sulle centrali finanziarie – ha sostenuto – ma gli attori principali, anche delle dinamiche speculative, sono prevalentemente le grandi corporation), la ridefinizione della “posizione dell’Unione Europea nel mondo”, in particolare nel rapporto con il suo Sud, e la riduzione del consumo delle materie prime, anche per tagliare le emissioni di gas serra.

Ne è seguito un dibattito ampio: per Antonio Tricarico (re:common) bisogna capire “come riappropriarsi a livello europeo della finanza pubblica e sganciarla dalla speculazione finanziaria privata”, ad esempio – ha suggerito – rilanciando il ruolo delle banche d’investimento pubbliche, oggi dipendenti dal mercato finanziario. Per Jorgos Vassilikos, con il controllo dell’Eurogruppo, cioè della riunione dei ministri economici, sui bilanci nazionali si avvera il “sogno antidemocratico” descritto dal rapporto della Trilateral del 1975. Mentre sono impressionanti le cifre fornite da Andrea Banares (Fondazione Responsabilità Etica): il debito pubblico italiano corrisponde a meno dell’un per cento delle migliaia di miliardi di dollari in prodotti derivati, controllati dalle quattro più importanti banche d’affari di Wall Street. E solo in Italia il peso dei derivati è cresciuto negli ultimi vent’anni del 642 %, venticinque volte più del Pil. E’ la temporalità dei mercati finanziari, e della loro crisi in rapporto a quella della politica a risultare drammaticamente asimmetrica: per Banares, con la risoluzione del Parlamento Europeo a favore dell’introduzione della Tobin Tax, ovvero della tassazione delle transazioni finanziarie (TTF), si apre “uno spiraglio”, ma ci sono voluti vent’anni di campagne (e la portata della crisi) per arrivare a questa decisione politica, peraltro non ancora esecutiva, mentre bastano pochi millesimi di secondo per una decisione finanziaria dagli “effetti nocivi” devastanti.

Problematico, a mio avviso, l’intervento di Klaus Suehl (Rosa Luxemburg Stiftung): la sua insistenza, al ritorno da un viaggio ad Atene, sulla “necessaria solidarietà” da portare ai “popoli vittime della crisi” non può essere considerato solo un retaggio da cultura terzomondista anni Sessanta, ma è molto più rilevatore di un atteggiamento diffuso nella sinistra tedesca, che rischia di inibire invece la ricerca di una pratica sociale e politica comune del comune spazio europeo.

Sono seguiti gli interventi dei parlamentari europei: il ritorno rispetto alle questioni poste, e riassumibili nell’urgenza di stabilire forme di controllo sociale e democratico sulle dinamiche dei mercati finanziari, è stato senza alcun dubbio positivo, ma è difficile nascondere la sorpresa per il fatto che pure gli eurodeputati del Partito Democratico italiano, con alcuni tratti di involontaria comicità, quando “giocano in trasferta” appaiano quasi “estremisti”, dimentichi del sostegno generosamente offerto al Governo Monti e alle sue politiche.

A chiudere la sessione poche, ficcanti parole di Rossana Rossanda: a ricordare, dopo gli interventi di esponenti della CES (la Confederazione europea dei sindacati), come di fronte al quadro descritto non solo nessuno immagini l’indizione di uno sciopero generale continentale, ma addirittura i sindacati in Europa non si facciano “neppure una telefonata fra di loro”. Certo, le organizzazioni sindacali – ha aggiunto – non hanno più “alcun effettivo potere, ma sono troppo tranquilli per questo”. Insomma, la sinistra che lei ha conosciuto è stata sconfitta, negli ultimi trent’anni in Europa, ma “almeno, cominciate a parlarvi tra di voi.”


EVITARE UNA GRANDE DEPRESSIONE

La seconda sessione, in mattinata, si è occupata di “green new deal”, occupazione, conversione ecologica e beni comuni. Introdotta da Danny Lang (rete degli Economistes atterrés) intorno all’interrogativo su come “migliorare lavoro e welfare, senza tornare all’impossibile riproposizione del vecchio modello industrialista”, la relazione di Pascal Petit (Université Paris XIII) ha preso le mosse dalla constatazione che la stessa agenda politica neoliberista è diventata “ostaggio della finanza, controproducente rispetto ai suoi stessi fini”, insomma è andata “troppo in là”, trovandosi incastrata nella sua stessa “trappola ideologica”. Tutti i suoi paesi modello, di diversi modelli comunque sotto il segno del neoliberismo trionfante, sono in crisi, anche quando la nascondono: vale per gli Stati Uniti, così come per Germania e Gran Bretagna. E servono certo strumenti giuridici più avanzati per mettere a nudo e contenere gli effetti delle “debolezze” del sistema finanziario, ma non guasta anche il ricorso al “caro vecchio sistema del boicottaggio” di banche e istituzioni finanziarie. Questo per arrivare a rivedere e rafforzare le basi fondamentali dei servizi pubblici, anche a livello locale, molto erose negli ultimi vent’anni.

Ricchi di proposte, anche pratiche, per un rilancio in chiave ecologica e sociale dell’economia, gli interventi di Etienne Lebeau (Joint Social Conference), Giulio Marcon (sbilanciamoci!), Thomas Coutrot (Attac France) e Michele De Palma (FIOM). Quest’ultimo, in particolare, ha ricordato come oggi l’esercizio stesso della contrattazione sia impossibile per milioni di lavoratrici e lavoratori in Europa e come manchi un autentico sindacato europeo, una “coalizione di lavoratori” in grado di imporre un contratto continentale unico, incardinato su minimi salariali, limiti all’orario, diritti e superamento della precarietà. Per De Palma non basta discutere che cosa fa la finanza, ma è necessario interrogarsi su “quale crescita”, ragionare sull’intero processo produttivo, impedendo che la responsabilità per produzioni inquinanti e nocive sia scaricata, col ricatto, sui lavoratori. Allo stesso modo è indispensabile introdurre un reddito garantito per le giovani generazioni, per evitare che su di esse possa esercitarsi il ricatto della disoccupazione: uno strumento per “ricostruire autonomia, da Marchionne come dalla Lehman Brothers”.

Per l’economista Mariana Mazzucato (Open University, GB), bisogna “provocare i sindacati”, la loro è una strategia tutta difensiva e l’offensiva è ancora debole. Eppure servirebbe per porre con forza una grande questione redistributiva della ricchezza, “non solo per costruire un nuovo welfare, ma per andare a prendersi le risorse là dove si produce effettivamente valore.” E più risorse pubbliche andrebbero indirizzare proprio per investire nella ricerca delle tecnologie verdi.

Sian Jones (European Anti-Poverty Network) ha sottolineato la paradossale scarsa attenzione che viene dedicata, nel tempo della crisi, alle politiche di welfare: “l’agenda sociale europea sembra essere sparita”. E invece nuovi servizi sociali di protezione dovrebbero essere coniugati con le campagne contro razzismo e discriminazione. Ed è il momento giusto per pretendere una Direttiva dell’Unione Europea che disciplini livelli comuni ed universali di “reddito minimo”.

Il contributo dell’attivista bulgara Mariya Ivancheva (European Alternatives) ha riportato l’attenzione sul tema dei beni comuni. Ci sono lotte di cui poco si sa a livello continentale: proprio in una Bulgaria apparentemente pacificata, migliaia di persone si sono negli ultimi mesi mobilitate contro la politica silvicola dell’Unione Europea, che serve ad avallare la sistematica distruzione di migliaia di ettari di foreste nei Balcani. Tommaso Fattori (Forum dei movimenti per l’acqua) ha insistito su come il conflitto intorno ai “commons” stia al centro in Europa della battaglia per il “recupero dal basso di sovranità da parte di cittadini”. Per Jason Nardi (Social Watch), infine, bisogna de-industrializzare la produzione agricola, cancellarne il sovvenzionamento per incentivare gli investimenti veri, contribuire alla riduzione dei consumi, con scelte da “imporre anche in modo proattivo”.

Il giro di tavolo dei rappresentanti istituzionali è stato aperto da uno Stefano Fassina (PD) molto più prudente e “governativo” di chi lo aveva preceduto, ma che di fronte alla crescita innegabile dei divari sociali ha sottolineato il bisogno di “alleggerire la pressione fiscale sui cittadini lavoratori”, altrimenti si rischia nel breve termine il “rifiuto dell’Europa”. Dopo Marisa Matias (parlamentare portoghese della GUE), ha preso la parola Nichi Vendola che, in un’ottica politica, ha segnalato come tra crisi della sinistra, cioè “crisi di un punto di vista autonomo” sul mondo, e crisi dell’Europa, cioè di un “modello di incivilimento che aveva stabilito un rapporto culturale e costituzionale tra lavoro e libertà”, vi sia uno strettissimo rapporto. Tanto che “rinnovamento della sinistra e costruzione europea” stanno sul medesimo terreno. In qualità di amministratore locale, ha denunciato i paradossi del Patto di stabilità, che impedisce di spendere “per reagire alla crisi” le risorse virtuosamente accumulate; quello della difficoltà a difendersi dalla speculazione finanziaria, per cui la Regione Puglia è stata forse l’unico ente locale a riuscire a rinegoziare il proprio debito in derivati con un colosso come Merrill Lynch, ma il comune cittadino cliente di una banca non viene mai informato dei rischi che corrono i suoi risparmi investiti; quello infine del potere e della decisione democratica: “quanto conto io in realtà?” si è chiesto, se sono eletto da un milione di cittadini ma mi viene imposta la privatizzazione forzata di beni comuni quali l’acqua e l’energia.


UN’EUROPA DEMOCRATICA

La sessione pomeridiana, e conclusiva, è stata dedicata alla partecipazione e ai processi reali di “decision making” a livello continentale. Monica Frassoni (copresidente dei Verdi europei) non si è limitata a denunciare lo storico deficit democratico delle istituzioni comunitarie e lo “squilibrio di poteri” nel rapporto di governance tra i loro stessi organismi con la triangolazione tra Parlamento, Commissione e Consiglio, in rigoroso ordine crescente di peso effettivo. Ma ha segnalato anche i rischi connessi ad un “permanente andare avanti e indietro” nella costruzione europea.

Rossana Rossanda si è domandata perché i popoli europei non credano nell’Europa, e la vocazione europeista sia rimasta una cultura politica d’élite, proprio nel continente che aveva inventato la democrazia come “forma di distribuzione del potere in una società”. La risposta sta nel vizio d’origine degli accordi di Maastricht del 1992, quando la comunità è stata fondata su un elemento estraneo alla politica, cioè l’economia. E, all’interno di questa, sull’elemento più astratto, cioè la moneta. La rappresentatività di chi governa realmente in Europa è quella delle forze economiche dominanti, perché si è passati dal “rapporto tra sovrano e popolo a quello tra forze economiche e forze politiche”, con le seconde al diretto servizio delle prime. Perciò la sfida dovrebbe consistere nella costruzione di un potere politico che sia, in chiave contemporanea, almeno all’altezza della settecentesca “divisione dei poteri” e dell’ottocentesco riconoscimento dei “diritti del lavoro”.

Susan George ha puntato in particolare la sua attenzione sul documento Van Rompuy-Draghi-Barroso-Juncker, in queste ore in discussione al Consiglio: un “manifesto antidemocratico” che consegna poteri enormi ad autorità non elette da nessuno, che procede “rapidamente” su una strada che deve essere bloccata dall’ “unità di un fronte del rifiuto”. E di fronte al quale non abbiamo tanto tempo.

E’ seguito un nutritissimo dibattito tra i cui contributi “dal basso” segnalo qui, al volo per ragioni di spazio, quelli di Hilary Wainwright (rivista Red Pepper), Pier Virgilio Diastoli (European Movement e Permanent Forum Civil Society), Pierre Jonckheer (presidente della Green European Foundation), Fabienne Orsi (Attac France), gli indignados di Barcellona Daniel Seco e Sergi Diaz, Raffaella Bolini (Arci), Walter Meier (Transform) e Roberto Musacchio (Altramente), tutti con accenti diversi orientati all’importanza di un processo costituente di uno spazio democratico europeo, a partire da un’idea non formale ma conflittuale di democrazia. Tra di essi particolare forza ha avuto il contributo di Lorenzo Marsili (European Alternatives) nel richiamare alla necessità di “fare politica a livello europeo”. Dopo aver citato i casi in cui ciò non è avvenuto, dallo sciopero generale continentale contro le politiche di austerity, alla difesa della Grecia dall’attacco subito e in corso, fino al rifiuto del fiscal compact – e non a caso il cruciale vertice del Consiglio europeo non ha visto contrapporsi alcuna visibile forma di protesta – Marsili ha indicato nell’esigenza che i partiti “cedano sovranità”, verticale e orizzontale; nell’elaborazione di una vera e propria “strategia politica” comune a livello continentale; nella costruzione di un programma di movimenti e società civile in vista del voto europeo del 2014, gli obiettivi minimi di questa fase.

La stessa Rossanda, in chiusura, è tornata sulla preferenza per un’ “ipotesi costituente transnazionale”, perché è la portata del cambiamento in atto a richiederla; mentre Mario Pianta ha indicato le tappe successive di un “lavoro congiunto” che qui ha avuto inizio.


MA … CONCLUSIONI PROVVISORIE

Credo che la discussione di Bruxelles abbia fatto compiere a tutti i suoi partecipanti un significativo passo in avanti. Le molto ragionevoli misure keynesiane di governo della finanza e di stimolo ad uno sviluppo non distruttivo e sostenibile, che qui sono state illustrate e che in parte sono recepite dal comunicato finale (riprodotto qui sotto), iniziano infatti a descrivere i contorni di una proposta di alternativa larga, immediatamente collocata sul terreno sociale ed ecologico. Questa proposta può davvero essere considerata patrimonio comune e condiviso delle differenti esperienze che qui si sono ritrovate.

Ma non si può fare a meno di sentirsi in sintonia con le realistiche “sgradevoli” considerazioni di Rossanda. Bisogna imparare tutti a dirsi la verità. E soprattutto le verità scomode. Realizzare anche solo un decimo dei ragionevoli obiettivi indicati dal Forum implicherebbe ed implica un drastico rovesciamento dei rapporti di forza, sociali e politici, dati. Insomma, per dirla con una formula: l’alternativa si presenta finalmente “ricca di contenuti”, ma drammaticamente “povera di forza”.

La discussione intorno alla questione democratica in Europa impone allora il tentativo di rispondere alla domanda: da dove partire affinché l’alternativa non risulti velleitaria?

La sensazione, più che una previsione che, di questi tempi, nessuno dovrebbe azzardarsi a fare, è che “Loro” cioè i signori riuniti a trecento metri di distanza nel palazzo del Consiglio stiano accelerando il processo di unificazione politica, certo sotto il segno delle politiche economiche neoliberiste e del deficit democratico, che fino a questo punto ci hanno portato. Quando si affrontano i temi dell’Unione fiscale e di quella bancaria è di questo processo che stiamo assistendo al consolidarsi.

E, allora mai come oggi, vi è la necessità che faccia irruzione sulla scena, su questa scena, un potere costituente radicalmente democratico, che sia nutrito da una nuova stagione di conflitto sociale in Europa. Perciò questa necessità marcia di pari passo con l’affermarsi di una capacità di pensare ed agire con modalità costituenti innovative, anche nelle relazioni tra di noi, nel campo di chi vuole costruire l’alternativa. E’ il tema delle “coalizioni” e riguarda tutti perché nessuno può più dirsi né esercitarsi da autosufficiente. Nel nostro piccolo, con le giornate di Francoforte, ci abbiamo provato. Ma l’idea delle coalizioni in Europa, da verificare nel vivo dei conflitti del presente, deve interessare ogni piano, quello dei movimenti sociali così come quello sindacale, tra le autonomie locali così come sul piano direttamente politico. E, allo stesso tempo, tra questi differenti livelli dev’essere instaurata una nuova dialettica intessuta di relazioni reali.

Ecco dunque il limite, ma anche la sfida stimolante che la discussione di Bruxelles ci consegna. Perché, come ha detto un certo Cesare Prandelli, “abbiamo capito che oltre alla tecnica, ci vuole la qualità e il cuore.” E se si mettono in campo tutti e tre questi elementi, si può provare sul serio a mandare a casa i custodi del “rigore” (così come si è fatto con quelli “dei rigori”) che schiacciano la democrazia, la vita e i diritti di milioni di donne e uomini d’Europa.

di Beppe Caccia

Bruxelles, 28 giugno 2012

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Il comunicato finale (versione italiana a cura di Gloria Bertasi)

Cinque proposte chiave

del Forum «Un'altra strada per l'Europa»

Bruxelles, 28 giugno 2012

Un'alternativa all'inerzia del Consiglio Europeo.

I 150 partecipanti al Forum Internazionale «Un'altra strada per l'Europa» del 28 giugno 2012 presso il Parlamento europeo a Bruxelles hanno discusso delle alternative praticabili alla mancanza di azione efficace contro la crisi europea attese dal Consiglio europeo di Bruxelles.

Tra le azioni concrete richieste, le seguenti assumono il carattere di estrema urgenza:

Confrontare la drammatica accelerazione della crisi finanziaria europea - segnata dall'interazione tra la crisi bancaria e la crisi del debito pubblico - la Banca centrale europea deve agire immediatamente in qualità di prestatore di credito di ultima istanza nei fondi obbligazionari di Stato. Il problema del debito pubblico va risolto con comune senso di responsabilità dell'Eurozona, usando accordi istituzionali che potrebbero essere attuati senza dilazione; il debito deve essere valutato da un audit pubblico.

E' necessario un radicale ridimensionato del settore finanziario con una tassa sulle transazioni finanziarie, limiti alla finanza speculativa e ai movimenti di capitali e con un'estensione del controllo sociale, nello specifico sulle banche che ricevono fondi pubblici. Il sistema finanziario dovrebbe essere trasformato in modo tale da supportare investimenti produttivi sostenibili da un punto di vista sociale e ambientale.

Le politiche di austerità dovrebbero essere rovesciate e il pesante condizionamento imposto ai Paesi che ricevono fondi emergenziali europei andrebbe rivisitato; la pericolosa costrizione del Patto di stabilità va rimossa cosicché i paesi possano difendere le spese pubbliche, sociali e i salari mentre l'UE assume un ruolo più ampio nello stimolare la domanda, promuovere la massima occupazione e imboccare un nuovo corso di crescita sostenibile. Inoltre, le politiche europee dovrebbero investire nell'armonizzazione fiscale, mettere la parola fine alla competizione fiscale e spostare il peso fiscale dal lavoro a una più elevata tassazione di profitti e ricchezza.

L'azione dovrebbe partire ora per cambiamenti di lungo termine nelle seguenti direzioni:

Un «new deal» verde può fornire una via d'uscita alla recessione in Europa con importanti investimenti a sostegno di una transizione ecologica verso la sostenibilità, aprendo così a posti di lavoro d'alta qualità, ampliando le conoscenze in nuovi ambiti d'innovazione e allargando le possibilità d'azione a livello locale, in modo particolare sui beni pubblici.

La democrazia deve essere estesa a tutti i livelli in Europa; l'Unione europea va riformata e la concentrazione di potere nelle mani degli Stati più potenti, così come si è sviluppata con la crisi, dev’essere rovesciata. L'obiettivo è raggiungere una maggiore partecipazione dei cittadini, un ruolo più significativo del Parlamento europeo e un controllo democratico molto più significativo sulle decisioni chiave. Le prossime elezioni europee del 2014 devono rappresentare un'opportunità per compiere scelte tra le proposte alternative per l'Europa all'interno e trasversalmente negli Stati membri dell'Unione.

Nel rischio di un collasso, le politiche europee devono cambiare strada e un'alleanza tra società civile, sindacati, movimenti sociali e forze politiche progressiste - specialmente nel Parlamento europeo - è imprescindibile per portare l'Europa fuori dalla crisi generata da neoliberalismo e finanza e verso una democrazia effettiva.


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Il comunicato finale (testo originale inglese)


Five Key Proposals for Another Road for Europe

Brussels, 28 June 2012

An alternative to European Council inaction

from the Forum “Another Road for Europe”


150 participants to the International Forum “Another Road for Europe” held on June 28, 2012 at the European Parliament in Brussels have discussed viable alternatives to the lack of remedial action on Europe’s crisis that is expected from the European Council in Brussels.

The practical actions that have been demanded include the following. As a matter of urgency:

1. Facing the dramatic acceleration of Europe’s financial crisis – marked by the interaction between a banking crisis and the public debt crisis – the European Central Bank must immediately act as a lender of last resort in the government bond market. The public debt problem has to be solved with a common responsibility of the eurozone, using institutional arrangements that could be put in place without delay; debt has to be evaluated by a public audit.

2. A radical downsizing of the financial sector is needed, with a financial transaction tax, limitations on speculative finance and capital movements, and an extension of social control in particular over banks receiving public funds. The financial system should be transformed, so that it supports socially and environmentally sustainable productive investment.

3. Austerity policies should be reversed and the heavy conditionality imposed on countries receiving EU emergency funds should be revised; the dangerous constraints of the “fiscal compact” need be removed, so that countries can defend public expenditure, welfare and wages, while the EU assumes a greater role in stimulating demand, promoting full employment and taking a new course of sustainable and equitable growth. Moreover, European policies should move towards fiscal harmonization, putting an end to tax competition, and shifting the tax burden away from labour and to a higher taxation of profits and wealth.

Action should start now for longer term changes in the following directions:

4. A green new deal can provide a way out of Europe’s recession, with large investments supporting an ecological transition toward sustainability, providing high quality jobs, expanding capabilities in new innovative fields and enlarging possibilities for action at the local level, especially on public goods.

5. Democracy has to be expanded at all levels in Europe; the European Union has to be reformed and the concentration of power in the hands of more powerful states that has taken place with the crisis has to be reversed. The aim is to achieve greater citizens’ participation, a major role for the European Parliament, and a much more significant democratic control over key decisions. The next European Parliament elections in 2014 must represent an opportunity for making choices amongst alternative proposals for Europe within and across European Member States.

Facing a risk of collapse, Europe’s policies need to change course, and an alliance between civil society, trade unions, social movements and progressive political forces - notably in the European Parliament - is required to lead Europe out of the crisis created by neoliberalism and finance and towards a fully fledged democracy.



Information in five languages and the original appeal “Another road for Europe” can be found at www.anotherroadforeurope.org.

For information and contacts:

anotherroadforeurope@gmail.com

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Le organizzazioni partecipanti al Forum: Active Citizenship Network, Altramente, Arci, Attac France, Attac Germany, Attac Finland, Centro studi Alternativa Comune, Corporate Europe Observatory, Economistes Atterrés, Euromemorandum, European Alternatives, European Anti-Poverty Network, European Federalist Movement, Fiom-Cgil, Green European Foundation, il Manifesto, Joint Social Conference, New Economics Foundation, OpenDemocracy.net, Red Pepper, Rete@sinistra, Rosa Luxemburg Stiftung, Sbilanciamoci!, Social Watch Italian coalition, Soundings, Transform! Europe, Transnational Institute, in collaborazione con i gruppi al Parlamento Europeo “The Greens EFA” e “GUE / NGL”.


tratto da: http://www.globalproject.info

martedì 19 giugno 2012

Lenin - "Sulla Cooperazione" 1923

Interessanti riflessioni del leader russo sulla cooperazione e il suo ruolo nella costruzione della "società socialista".

Ogni volta che penso al Socialismo, soprattutto a quello di stampo sovietico, mi vengono in mente le parole di Sandro Pertini: "... Per me libertà e giustizia sociale, che poi sono le mete del socialismo, costituiscono un binomio inscindibile non vi può essere vera libertà senza la giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà.
Ecco, se a me socialista offrissero la realizzazione della riforma più radicale di carattere sociale, privandomi della libertà io la rifiuterei. ...Ecco come io sono socialista...
"


Pubblicato nella Pravda, nn. 115 e 116, 26 e 27 maggio 1923.
Trascritto dall'Organizzazione Comunista Internazionalista (Che fare) e da Pagine rosse, Gennaio 2003


"Mi pare che da noi non si stimi abbastanza la cooperazione. Non tutti comprenderanno che ora, dopo la rivoluzione d'Ottobre e indipendentemente dalla Nuova politica economica (al contrario, a questo riguardo dobbiamo dire: proprio grazie alla Nuova politica economica), la cooperazione acquista da noi un'importanza del tutto esclusiva. I sogni dei vecchi cooperatori abbondano di chimere. Essi sono sovente ridicoli, con le loro fantasticherie. Ma in che consiste la loro irrealtà? Nel non comprendere l'importanza principale, radicale della lotta politica della classe operaia per l'abbattimento del dominio degli sfruttatori. Ora quest'abbattimento da noi ha avuto luogo, ed ora molto di quanto sembrava fantastico, perfino romantico, perfino banale nei sogni dei vecchi cooperatori, diventa una realtà delle più autentiche.

Infatti, da noi, una volta che il potere dello Stato è nelle mani della classe operaia, una volta che a questo potere dello Stato appartengono tutti i mezzi di produzione, da noi, effettivamente, non ci resta che da organizzare la popolazione in cooperative. Nelle condizioni di un massimo raggruppamento della popolazione nelle cooperative, si arriva automaticamente a quel socialismo, che prima aveva suscitato un'ironia legittima, dei sorrisi, del disprezzo fra le persone convinte a giusta ragione della necessità della lotta di classe, della lotta per il potere politico, ecc. Ed ecco che non tutti i compagni si rendono conto dell'importanza gigantesca, incommensurabile che acquista ora per noi l'organizzare la popolazione della Russia in un sistema di cooperative. Con la Nep abbiamo fatto una concessione al contadino in quanto mercante, al principio del commercio privato; appunto da ciò deriva (contrariamente a quanto si crede) l'importanza gigantesca della cooperazione. In sostanza, l'organizzare in misura sufficientemente ampia e profonda la popolazione russa in cooperative nel periodo della Nep, è tutto quanto ciò occorre, dato che ora abbiamo trovato quel grado di coordinazione dell'interesse privato, dell'interesse commerciale privato, con la verifica, e con il controllo da parte dello Stato, quel grado di subordinazione dell'interesse privato all'interesse generale che prima rappresentava un ostacolo insormontabile per molti, per moltissimi socialisti. In realtà, il potere dello Stato su tutti i grandi mezzi di produzione, il potere dello Stato nelle mani del proletariato, l'alleanza di questo proletariato con milioni e milioni di contadini poveri e poverissimi, la garanzia della direzione dei contadini da parte del proletariato, ecc., non è forse questo tutto ciò che occorre per potere, con la cooperazione, con la sola cooperazione, che noi una volta consideravamo dall'alto in basso come affare da bottegai e che ora, durante la Nep, abbiamo ancora il diritto, in un certo senso, di considerare allo stesso modo, non è forse questo tutto ciò che è necessario per condurre a termine la costruzione di una società socialista integrale? Questo non è ancora la costruzione della società socialista, ma è tutto ciò che è necessario e sufficiente per condurre a termine la costruzione.

Ed è appunto questa condizione che viene sottovalutata da molti dei nostri attivisti nel loro lavoro pratico. Da noi si guarda la cooperazione con disprezzo, non comprendendo l'importanza esclusiva che ha la cooperazione, anzitutto, dal punto di vista di principio (i mezzi di produzione appartengono allo Stato), in secondo luogo, dal punto di vista del passaggio a un ordine nuovo per la via più semplice, facile e accessibile ai contadini.

Appunto in ciò sta di bel nuovo l'essenziale. Una cosa è fantasticare in merito ad ogni sorta di associazioni operaie per edificare il socialismo; altra cosa è imparare praticamente a edificare questo socialismo in modo che ogni piccolo contadino possa partecipare a questa costruzione. Tale stadio noi l'abbiamo ora raggiunto. Ma è indubbio che, avendolo raggiunto, noi lo utilizziamo in modo troppo insufficiente.

Nel passare alla Nep, abbiamo esagerato non nel senso che abbiamo prestato troppa attenzione al principio dell'industria libera e del commercio libero, ma, nel passare alla Nep, abbiamo esagerato nel senso che abbiamo dimenticato di pensare alla cooperazione e che ora non l'apprezziamo sufficientemente e ne abbiamo cominciato già a dimenticare la gigantesca importanza nei due aspetti su indicati del suo significato.

Qui intendo intrattenermi col lettore su quanto praticamente si può e si deve subito fare, partendo da questo principio "cooperativo".

Con quali mezzi si può e si deve subito sviluppare questo principio "cooperativo", in modo da renderne chiaro ad ognuno la sua funzione socialista?

Bisogna porre politicamente la cooperazione in modo tale, che non soltanto le cooperative godano in generale e sempre di determinati vantaggi, ma in modo che questi vantaggi siano vantaggi puramente materiali (il saggio di interesse bancario, ecc.). È necessario concedere alle cooperative crediti statali in misura tale, che superino sia pure di poco i crediti concessi da noi alle aziende private, che si avvicinino ad esempio a quelli concessi all'industria pesante, ecc.

Ogni regime sociale sorge solo con l'appoggio finanziario di una classe determinata. È inutile ricordare quante centinaia e centinaia di milioni di rubli costò il sorgere del capitalismo "libero". Ora dobbiamo comprendere e mettere in pratica questa verità: che attualmente il regime sociale che dobbiamo appoggiare in modo straordinario è il regime cooperativo. Ma dobbiamo appoggiarlo nel vero senso della parola, cioè quest'appoggio non è sufficiente intenderlo come appoggio di una forma qualsiasi di cooperazione; quest'appoggio dev'essere inteso come appoggio di quella cooperazione, alla quale partecipano veramente le vere masse della Popolazione. Dare un premio al contadino che partecipa alla cooperazione, è una forma certamente giusta; ma contemporaneamente, bisogna verificare questa partecipazione, e verificare il grado di coscienza ed il pregio; ecco in che cosa sta il nocciolo della questione. Quando un cooperatore arriva in un villaggio e apre colà uno spaccio cooperativo, la popolazione, a dire il vero, non prende nessuna parte alla sua fondazione; ma, guidata dal proprio interesse, vorrà ben presto provare a parteciparvi.

Questo problema presenta anche un altro lato. Ci resta ben poco da fare, dal punto di vista di un europeo "civilizzato" (che sappia anzitutto leggere e scrivere), per costringere ognuno a partecipare, e a partecipare non in modo passivo, ma in modo attivo, alle operazioni cooperative. In sostanza ci è rimasta "soltanto" una cosa da fare: rendere la nostra popolazione talmente "civilizzata", ch'essa comprenda tutti i vantaggi che dà la partecipazione generale alla cooperazione, e che organizzi questa partecipazione. "Soltanto" questo. Ora non abbiamo bisogno di nessun'altro genere di saggezza per passare al socialismo. Ma per realizzare questo "soltanto", è necessario tutto un rivolgimento, tutta una tappa di sviluppo culturale di tutta la massa popolare. Perciò la nostra regola dev'essere: il meno possibile di artifici, il meno possibile di intricato. La Nep a questo riguardo rappresenta un progresso, nel senso che essa si adatta al livello del contadino più comune, che non esige da questi niente di superiore. Ma per ottenere a mezzo della Nep che assolutamente tutta la popolazione partecipi alle cooperative, per questo è necessaria un'intiera epoca storica. Se tutto va per il meglio, noi possiamo attraversare quest'epoca in uno o due decenni. Eppure questa sarà un'epoca storica speciale, e senza di essa, senza un'istruzione elementare generale, senza un grado sufficiente di comprensione, senz'aver abituato sufficientemente la popolazione a servirsi dei libri e senza una base materiale per questo, senza una certa garanzia, diciamo, contro il cattivo raccolto, la carestia, ecc., - senza tutto ciò, noi non raggiungeremo il nostro scopo. Tutto sta ora nel saper unire lo slancio rivoluzionario, l'entusiasmo rivoluzionario di cui abbiamo già dato prova, e dato prova in misura sufficiente e che abbiamo coronato da un successo completo, nel saperlo unire (qui sarei quasi propenso a dire) con la capacità di essere un mercante intelligente e colto, il che è del tutto sufficiente per un buon cooperatore. Per capacità di essere mercante, io intendo la capacità di essere un mercante colto. Se lo mettano bene in testa gli uomini russi o semplicemente i contadini che pensano: dal momento che commercia, significa che ha le capacità d'un mercante. Ciò è del tutto falso. Egli commercia, ma da questo alla capacità di essere un mercante colto, c'è una grande distanza. Egli commercia ora alla maniera asiatica, ma per saper essere un buon mercante, bisogna commerciare all'europea. Da ciò lo divide un'epoca intiera.

Concludo. Una serie di privilegi economici, finanziari e bancari alla cooperazione: in ciò deve consistere l'appoggio del nostro Stato socialista al nuovo principio di organizzazione della popolazione. Ma in questo modo il compito è prospettato soltanto in linee generali, perché resta ancora da precisare, da descrivere dettagliatamente tutto il suo contenuto pratico; ossia bisogna saper trovare la forma dei "premi" (e stabilire le modalità per il loro assegnamento) che noi concediamo per il lavoro in pro della cooperazione, la forma di premi con la quale si aiuti sufficientemente la cooperazione, la forma di premi con la quale si possano formare dei cooperatori colti. E il regime dei cooperatori inciviliti, data la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, data la vittoria di classe del proletariato sulla borghesia, questo è il regime del socialismo."

4 gennaio 1923


"Ogni qualvolta ho trattato l'argomento della Nuova politica economica, ho citato il mio articolo del 1918 sul capitalismo di Stato [1]. Ciò ha suscitato più volte i dubbi di alcuni giovani compagni. Ma i loro dubbi si riferivano soprattutto a problemi politici astratti.

Sembrava loro che non si potesse chiamare capitalismo di Stato un regime in cui i mezzi di produzione appartengono alla classe operaia e a questa classe operaia appartiene il potere dello Stato. Però essi non hanno notato che del termine "capitalismo di Stato" me ne son servito: in primo luogo, per stabilire il legame storico tra la nostra posizione attuale e la posizione da me presa nella polemica contro i cosiddetti comunisti di sinistra; e già allora ho dimostrato che il capitalismo di Stato sarebbe superiore al nostro regime economico attuale; per me l'importante era di stabilire il legame succedaneo del capitalismo di Stato abituale col capitalismo di Stato insolito, addirittura del tutto insolito, del quale parlai presentando al lettore la nuova politica economica. In secondo luogo, per me quel che è sempre stato importante, è l'obiettivo pratico. Ora, l'obiettivo pratico della nostra nuova politica economica consiste nell'ottenere delle concessioni; queste sarebbero già state indubbiamente nelle nostre condizioni un puro tipo di capitalismo di Stato. Ecco come io consideravo gli argomenti sul capitalismo di Stato.

Ma c'è ancora un aspetto del problema, nel quale possiamo aver bisogno del capitalismo di Stato o, almeno, di un confronto con esso. È quel che riguarda la cooperazione.

È indubbio che le cooperative, nelle condizioni di uno Stato capitalistico, sono istituzioni collettive capitaliste. È pure indubbio che, nelle condizioni della nostra realtà economica attuale, quando da noi coesistono delle aziende capitaliste private - non altrimenti però che sulla terra appartenente a tutta la società, e non altrimenti che sotto il controllo del potere di Stato appartenente alla classe operaia - e delle imprese di tipo socialista conseguente (quando i mezzi di produzione appartengono allo Stato, come il terreno su cui è impiantata l'azienda, e tutta l'azienda nel suo insieme), allora sorge ancora la questione di un terzo tipo di imprese, le quali, dal punto di vista di principio, non formavano prima un gruppo particolare, e precisamente: le aziende cooperative. In regime di capitalismo privato le aziende cooperative differiscono dalle aziende capitaliste, come le aziende collettive dalle aziende private. In regime di capitalismo di Stato le aziende cooperative si distinguono dalle aziende capitaliste di Stato, in primo luogo come aziende private, in secondo luogo come aziende collettive. Nel nostro regime attuale le aziende cooperative si distinguono dalle aziende capitaliste private in quanto sono aziende collettive, ma non si distinguono dalle aziende socialiste, perché sono fondate sulla terra e sui mezzi di produzione che appartengono allo Stato, cioè alla classe operaia.

Ecco una circostanza della quale da noi non si tiene sufficientemente conto quando si discute sulla cooperazione. Si dimentica che la cooperazione assume nel nostro paese, grazie alla particolarità del nostro regime statale, un'importanza del tutto esclusiva. Se si prescinde dalle concessioni, le quali, a proposito, non hanno avuto da noi uno sviluppo più o meno considerevole, nelle nostre condizioni la cooperazione coincide di regola completamente col socialismo.

Spiego il mio pensiero. In che cosa consiste l'irrealtà dei piani dei vecchi cooperatori, a partire da Robert Owen? Nell'aver sognato la trasformazione pacifica della società contemporanea mediante il socialismo, senza tener conto di una questione cardinale, come quella della lotta di classe, della conquista del potere politico da parte della classe operaia, dell'abbattimento del dominio della classe sfruttatrice. E perciò abbiamo ragione nel considerare questo socialismo "cooperativo"come del tutto fantastico, romantico e persino banale nel suo sogno di trasformare mediante la semplice organizzazione cooperativa della popolazione i nemici di classe in collaboratori di classe e la lotta di classe in pace di classe (cosiddetta pace civile).

È indubbio che, dal punto di vista del compito fondamentale d'oggigiorno, noi avevamo ragione, poiché, senza la lotta di classe per il potere politico nello Stato, non si può realizzare il socialismo.

Ma guardate come le cose sono mutate, ora che il potere dello Stato è nelle mani della classe operaia, che il potere politico degli sfruttatori è abbattuto e che tutti i mezzi di produzione (esclusi quelli che lo Stato operaio lascia volontariamente per un certo tempo e a certe condizioni di concessione agli sfruttatori) si trovano nelle mani della classe operaia.

Ora abbiamo il diritto di dire che il semplice sviluppo della cooperazione s'identifica per noi (salvo la "piccola" riserva sopra indicata) con lo sviluppo del socialismo. Contemporaneamente siamo obbligati a riconoscere che tutte le nostre opinioni sul socialismo hanno subito un cambiamento radicale. Questo cambiamento radicale consiste nell'aver dapprima posto il centro di gravità, e dovevamo porlo, sulla lotta politica, sulla rivoluzione, sulla conquista del potere, ecc. Ora invece il centro di gravità si sposta fino al punto di trasferirsi al pacifico lavoro organizzativo "culturale". Sono pronto a dire che per noi il centro di gravità si trasporta sul lavoro culturale, se non fossimo impediti dai rapporti internazionali, dall'obbligo di lottare per la nostra posizione su scala internazionale. Ma se lasciamo questo da parte e ci limitiamo ai rapporti economici interni, allora oggi il centro di gravità del nostro lavoro si porta veramente sul lavoro culturale.

Davanti a noi si pongono due compiti fondamentali, che costituiscono un'epoca. Si tratta del compito di trasformare il nostro apparato statale, che proprio non vale nulla e che abbiamo ereditato al completo dall'epoca precedente; in cinque anni di lotta non abbiamo modificato nulla seriamente in questo campo perché non ne abbiamo avuto il tempo, e non lo potevamo avere. Il nostro secondo compito consiste nel lavoro culturale per i contadini. E questo lavoro culturale fra i contadini ha come scopo economico appunto la cooperazione. Se potessimo riuscire a organizzare tutta la popolazione nelle cooperative, noi staremmo già a piè fermo sul terreno socialista. Ma questa condizione implica un tale grado di cultura dei contadini (precisamente dei contadini come una massa enorme), che è impossibile organizzare tutta la popolazione in cooperative senza una vera rivoluzione culturale.

I nostri avversari ci hanno detto più volte che noi intraprendiamo un'opera insensata, nel voler impiantare il socialismo in un paese che non è abbastanza colto. Ma si sono ingannati; noi abbiamo cominciato non da dove si doveva cominciare secondo la teoria (di ogni genere di pedanti), e da noi il rivolgimento politico e sociale ha preceduto il rivolgimento culturale, la rivoluzione culturale di fronte alla quale pur tuttavia oggi ci troviamo.

Ora a noi basta di compiere questa rivoluzione culturale per diventare un paese completamente socialista; ma per noi questa rivoluzione culturale comporta delle difficoltà incredibili, sia di carattere puramente culturale (poiché siamo analfabeti), che di carattere materiale (poiché per diventare colti è necessario un certo sviluppo dei mezzi materiali di produzione, è necessaria una certa base materiale)."

6 gennaio 1923 Lenin


[1]. Lenin allude al suo articolo Sull'infantilismo di "sinistra" e sullo spirito piccolo-borghese (vedi Opere, vol. 27, pp, 293-322).


tratto da: http://www.marxists.org/italiano/lenin/1923/1/sullacooperazione.htm

lunedì 18 giugno 2012

A better world means more co-operatives - Getting their attention

"Co-operatives received some important high-level recognition this week when ICA’s President, Dame Pauline Green, and I were able to join representatives from China’s co-operative sector in a meeting with the Chinese Vice Premier, Hon. Mr. Hui Liangyu, in Beijing. Mr. Hui presented a four-part commitment of the Chinese government to co-operative development, including: sound legal protection for co-operatives; pushing forward innovation, ‘the inexhaustible resource for growth’; displaying co-operative values, such as poverty reduction; and deepening exchange among co-operatives, including with co-operatives in other countries.

This meeting was arranged by the All China Federation of Supply and Marketing Cooperatives, an ICA member, as part of an impressive symposium in Beijing for the International Year of Co-operatives. It conveyed a thoughtful, outward-looking strategy, with the global perspective presented along with a perspective from each of the world’s regions, providing an interest counterpoint for the Chinese view of their own co-operative experience and future.

Later that week, I had the opportunity to meet with the Deputy Prime Minister of Vietnam, H.E. Mr. Mguyen Xuan Phuc, in Da Nang, where he addressed the World Fisheries Cooperative Day attendees. He noted the significance of the fisheries sector to the Vietnamese economy and that Vietnam is now among the top 20 countries in fish catch and ranked sixth in terms of fisheries export. He expressed his appreciation specifically for the contributions of ICFO (International Co-operative Fisheries Organisation), ICA’s fisheries sectoral organisation, to the development of Vietnam’s fisheries co-operatives.

Juxtaposed, these meetings demonstrate the growing awareness of appreciation for co-operatives at the highest levels of government. The World Fisheries Cooperative Day, in particular, signals a way for us to continue to invite this attention even as the International Year itself reaches its close later this year.

This was the second World Fisheries Cooperative Day (15 June) conference. 200 representatives of fisheries co-operatives in a dozen countries shared their development experiences and their challenges before celebrating the Day, which included the presentation of the World Fisheries Cooperator Prize to Ikuhiro Hattori, President of the National Federation of Fisheries Co-operative Associations of Japan.

Mr. Hattori has a distinguished career in aquaculture and co-operation and was able to describe the steady development of the Japanese Federation since enabling legislation in 1948. The government early allowed the Federation to use its foreign currency reserves from fuel oil supply operations, which gave it a sound business model for growth. From that start, the Federation expanded into mutual aid, marketing, fish freezing and processing, and more recently, marine resource management and a fishers’ income security system. As Japan now recovers from the terrible tsunami of last year, the sophisticated systems of the Federation are demonstrating the value of thoughtful planning and steady growth. They also demonstrate an important point about governmental relations, and that co-operatives do not seek government subsidies as part of an ongoing business model. Instead, if policy can simply acknowledge the unique structure and nature of co-operatives and allow them to fully leverage their potential, the resulting impact is very impressive.

Vietnam, this year’s host for the conference, is still developing its fisheries co-operatives. With a coastline of 3200 km, fishing is a major part of the Vietnamese economy, and employs 5 million people. It is also a fast-growing part of the economy, increasing over 6% annually this past decade. But it is an inefficient industry. Today, the vast majority of fishing knowledge is passed from father-to-son, vessels are often of low quality, lacking communication and safety equipment, and illegal and unsustainable fishing methods are common.



An improved legislative framework for co-operatives, beginning in the late 1990s, has resulted in an increase in the number of fishing co-operatives from 79 to 500, and an additional 4000 ‘pre-cooperatives’. With training, logistical services, and joint marketing, fishers in co-operatives are reporting a doubling of their income. Further improvements to the co-operative legislation are pending even as I write, and we were able to address this with the Deputy Prime Minister.

While fishers are among the poorest of workers, conditions would seem to be ripe for greater attention to their needs. For example, the agenda of the important United Nations Rio+20 Conference on Sustainable Development, meeting this month in Brazil, includes sustainable oceans policy. At the same time, the Food and Agriculture Organisation has been warning of a growing food security crisis, and aquaculture and fishing are acknowledged as essential means to address this. ICA is working to ensure that co-operatives are seen as part of the solution. Our Public Policy Director, Betsy Dribben, is in Rio now, advocating for inclusion of co-operatives in the outcome document from Rio+20, to ensure our inclusion in post-Rio implementation strategies.


As further evidence of growing attention to co-operatives in this area of food supply, the new FAO (UN Food and Agriculture Organisation) Director-General, Mr. Graziano da Silva, is a friend of co-operatives, having seen first-hand their impact in his home country of Brazil. He is elevating the visibility of co-operatives within the FAO and ensuring their integration in key initiatives.

The dangers of the waters have long made fishing conducive to mutual support. An increased awareness of the over-exploitation of the seas has elevated the urgency of co-operation in resource management, as well. The co-operative model is showing, in the countries represented at the World Fisheries Cooperative Day, how effective it is in accomplishing this, while at the same time raising the standard of living of the fishers involved."


from: charlesgould.tumblr.com/post/25289917579

giovedì 7 giugno 2012

Perchè essere Vegani? - Why Vegan - Gary Yourofsky

Il discorso di Gary Yourofsky sui diritti animali e sul veganismo tenuto ad Atlanta presso il Georgia Institute of Technology nell'estate del 2010.

Il link della successiva sessione di Domande e Risposte:
http://www.youtube.com/watch?v=rOQk7-L7iH0&feature=youtu.be

Per maggiori info in italiano su come "vivere senza crudeltà":

http://www.vegfacile.info (Facile guida al veganismo)
http://www.vegan3000.info (Migliaia di ricette ovviamente vegan)
http://www.veganhome.it (Conosci altri vegan!)
http://www.agireora.org (Attivismo e informazioni in difesa degli animali)
http://www.scienzavegetariana.it (Associazione di specialisti e dottori vegetariani)
http://www.informazionealimentare.it (Forum di discussione su argomenti nutrizionali)
http://www.tvanimalista.info (Video animalisti)
http://www.vegpyramid.info (Le linee guida vegetariane per gli italiani)
http://www.infolatte.it (Informazioni sulla produzione e il consumo di latte di origine animale)
http://www.novivisezione.org (Fermiamo la vivisezione, falsa scienza!)
http://www.ricercasenzaanimali.org (Un altra ricerca è possibile)
http://www.consumoconsapevole.org/ (Comitato di consumatori per acquisti cruelty-free)

Link di FAQ sul veganismo, realizzate da Riccardo B. di Animalstation.it, se non trovate le risposte cercate o avete altri dubbi rivolgetevi nei forum di discussione linkati in precedenza.
Animal Station FAQ: http://www.animalstation.it/public/wordpress/?page_id=289



Download Link (avi, 1.44GB):
http://bit.ly/GaryFile

Il sito di Gary:
http://www.adaptt.org

Per contattarlo direttamente:
garytofu@earthlink.net

Il canale youtube di Gary:
http://www.youtube.com/user/adapttvideo

Liberamente riadattato dal video e dai sottotitoli presenti nel canale di TheAnimalHolocaust: http://www.youtube.com/watch?v=es6U00LMmC4

lunedì 4 giugno 2012

Estratti da Apologia per John Brown - H.D.Thoreau

Riporto di seguito alcuni estratti da Antologia per John Brown di Thoreau, in quanto ritango che possano essere utili per stimolare la riflessione sul nostro ruolo nella società, soprattutto in "tempi duri" come questi.


Non andò ad Harvard – quella buona e vecchia Alma Mater; non fu nutrito con la pappa che vi si somministra. Confessò lui stesso: “Non so più grammatica d’uno dei vostri vitelli”. Ma andò alla grande università dell’Ovest, dove assiduamente perseguì lo studio di una materia per la quale aveva mostrato una spiccata inclinazione, lo studio della libertà, e laureatosi diverse volte in quella disciplina cominciò finalmente, nel Kansas come tutti sanno, la pubblica professione di umanità. Queste erano le sue humanae litterae, non lo studio della grammatica. Avrebbe pronunciato una parola greca sbagliandone gli accenti, ma avrebbe raddrizzato un uomo che stesse per cadere.

“Preferirei” disse “avere il vaiolo, la febbre gialla e il colera tutti insieme al mio campo, piuttosto che un uomo senza principi… E’ uno sbaglio, signore, pensare, come fa il nostro popolo, che i ribaldi siano i migliori combattenti e gli uomini più adatti da opporre ai sudisti. Datemi uomini di buoni principi – uomini timorati di dio – uomini che abbiano rispetto di se stessi, e con una dozzina di questi io mi opporrò a qualsiasi numero di nemici, come questi banditi di Buford (un colonnello schiavista contemporaneo di Thoreau NdR).

Non attribuì solamente il proprio successo alla “sua stella” o a qualche altra magia. Disse, giustamente, che la ragione per cui tali forze superiori di numero gli cedevano, era – come confessò uno dei suoi prigionieri – che non avevano una causa per cui combattere, una specie di armatura, questa, che né a lui né al suo partito mancò mai. Quando fu l’ora, risultarono ben pochi gli uomini disposti a dare la vita in difesa di ciò che sapevano sbagliato; non volevano che quello fosse il loro ultimo atto in questo mondo.

Noi aspiriamo ad essere qualcosa di più che stupidi e timidi beni mobili che fingono di leggere la storia e la Bibbia, ma insozzano ogni casa e ogni giorno nei quali respirano.

(Riferito ai giornalisti dell’epoca che si fecero beffe del gesto di John Brown NdR) Certo tu puoi guadagnare di più con un quarto di latte che non con un quarto di sangue al tuo mercato, ma non è là che porta il suo sangue un eroe.
Tali persone non sanno che il frutto è come la semente e che nel mondo morale quando si pianta un buon seme un buon frutto è inevitabile, indipendentemente dal nostro annaffiarlo o coltivarlo; che quando si pianta, o seppellisce, un eroe sul campo, una messe d’eroi spunta su, senza fallo. Questa è una semente di tale forza e vitalità che non chiede il nostro permesso per germogliare.

Senza dubbio molti sono ben disposti ma sono pigri per costume e carattere e così non possono pensare che un uomo sia mosso da motivi più alti dei loro. Conseguentemente, decidono che quest’uomo è pazzo poiché sanno che essi non possono agire come lui, fintantoché resteranno se stessi.

L’uomo pensoso diviene eremita nelle strade del mercato.

Importanti e influenti direttori di giornali, usi a trattare con i politicanti, uomini d’un livello infinitamente inferiore, dicono nella loro ignoranza che Brown agì “per vendetta”. Non conoscono l’uomo. Non ho alcun dubbio che verrà il giorno in cui cominceranno a vederlo com’era. Devono concepire un uomo di fede e principi religiosi, non un politicante o un indiano; un uomo che per dare la vita alla causa degli oppressi non attese d’essere personalmente ostacolato o impedito a compiere qualche affare di scarsa importanza.
Era un uomo superiore. Non diede nessun valore alla sua vita fisica, di fronte agli ideali. Non sottoscrisse ingiuste leggi umane, ma gli resisté come sentiva dentro di sé. Una volta tanto siamo alzati sopra la trivialità e la polvere della politica, nella regione della verità e della virilità.


Nel suo caso non vi sono eloquenze oziose e preparate, discorsi da fanciulle, complimenti all’oppressore – la sua ispiratrice è la verità, e la sincerità forbisce le sue frasi. Poteva permettersi di perdere il suo fucile modello Sharp fintantoché conservava la sua capacità di far discorsi – un fucile infinitamente più sicuro e di più lunga portata.

Parliamo di un governo rappresentativo; ma che mostro di governo è quello nel quale le più nobili facoltà della mente e l’intero cuore non sono rappresentati?
Il solo governo che io riconosca è quel potere che stabilisce la giustizia sulla terra, mai quello che vi stabilisce l’ingiustizia.

Se dei privati sono costretti a compiere le funzioni del governo per proteggere i deboli e dispensare giustizia, allora il governo diventa solo un mercenario, un impiegato che compie solo uffici servili o di poca importanza.

Quando mai i buoni e i coraggiosi furono in maggioranza? Avreste voluto che aspettasse fino a quel momento?

Io parlo per gli schiavi quando dico che preferisco la filantropia del Capitano Brown a quella che se non mi uccide neppure però mi libera.

Questi uomini, insegnandoci a morire, al tempo stesso ci hanno insegnato a vivere.

E’ forse impossibile che un individuo abbia ragione e un governo abbia torto? Forse che le leggi devono essere imposte solo perché furono fatte? O devono essere dichiarate giuste da un quasiasi numero di uomini quando questi sanno che non sono giuste? E’ necessario che un uomo sia uno strumento per compiere un fatto che la sua natura migliore disapprova? E’ forse intenzione dei legislatori che gli uomini giusti siano sempre impiccati? E i giudici, devono forse interpretare la legge alla lettera senza interpretarne lo spirito? Che diritto avete, voi, a stringere un patto con voi stessi impegnandovi a fare questo o quello contro la luce che è in voi?
Che gli avvocati decidano solo su casi di poco conto. Gli affaristi possono deciderlo da sé. Se fossero gli interpreti delle leggi eterne che giustamente legano l’uomo (a giudicare), allora la cosa sarebbe diversa. Ma è una ben ingannevole fabbrica di leggi questa che per metà è in terra schiava e per metà in terra libera! Che razza di leggi per uomini liberi potete aspettarvi?


“Nessuno mi mandò qui: fui spinto da me stesso e dal mio Fattore. Non mi riconosco alcun padrone di forma umana.” John Brown