martedì 17 settembre 2013

Una crisi di senso, dunque di direzione - Stefano Zamagni 6di6

Una crisi di senso, dunque di direzione - Sesta ed ultima parte


Un secondo ammonimento possiamo trarre da questa grande crisi e cioè che, nonostante le apparenze, la proposta da taluno avanzata di rifugiarsi nella decrescita, non è affatto la soluzione ai problemi delle nostre società. La proposta della “decrescita felice” vanta precedenti illustri: la teoria dello stato stazionario per primo elaborata dal grande filosofo ed economista inglese J.S. Mill a metà Ottocento. Mill – riprendendo alcune considerazioni di Malthus - parlava di stato stazionario per significare una situazione in cui il tasso di crescita netto dell’economia è uguale a zero. Nel capitolo “Sullo stato stazionario” dei suoi Principles (1848), Mill criticava la scienza economica del suo tempo per aver identificato il benessere economico e sociale con l’andamento senza sosta della crescita dei profitti. Bloccare la logica egemonica dei “piaceri quantitativi” voleva dire per Mill mettere in discussione la capacità di autoregolazione del capitalismo e riportare in primo piano il ruolo della politica. In seguito, altri economisti e pensatori hanno formulato ipotesi analoghe.
Ricordo, tra questi, Paul Lafargue, genero di Marx, con il suo saggio Diritto all’ozio in cui è avanzata la proposta di lavorare tre ore al giorno (sic!); Bertrand Russell con il suo Elogio dell’oziosità che esplicitamente tratta di decrescita (propone un orario di lavoro di quattro ore giornaliere); E. F. Schumacher con il celebre Piccolo è bello. Un’economia come se gli esseri umani contassero; ed ancora Nicholas Georgescu Roegen con il suo programma di “bioeconomia” avanzato negli anni Settanta del secolo scorso. Non ci si deve dunque meravigliare se, di tanto in tanto, la preoccupazione per la sostenibilità e le preoccupazioni per il futuro spingono studiosi di diversa matrice culturale (ad es., J.S. Mill era un grande liberale) ad avanzare proposte del tipo decrescita felice, come in tempi recenti va facendo, con grande impegno, Serge Latouche.
Pur comprendendo le ragioni che rendono di grande attualità il movimento della decrescita e pur condividendo la diagnosi e l’eziologia dei “mali” della nostra società svolte dagli studiosi del movimento, non ritengo che la terapia suggerita e la via di uscita prospettata vadano nella direzione desiderata.
Vediamo perché.
In primo luogo, va precisato che il concetto di sviluppo ha ben poco da spartire con quello di crescita. Etimologicamente, sviluppo significa “liberazione dai viluppi, dai vincoli” che limitano la libertà della persona e delle aggregazioni sociali in cui essa si esprime. Questa nozione di sviluppo viene pienamente formulata all’epoca dell’Umanesimo civile (XV secolo). Decisivo, a tale riguardo, è stato il contributo della Scuola di pensiero francescana: ricercare le vie dello sviluppo significa amare la libertà. Tre sono le dimensioni dello sviluppo autenticamente umano, tante quante sono le dimensioni della libertà: la dimensione quantitativo-materiale, cui corrisponde la libertà da; quella sociorelazionale, cui corrisponde la libertà di; quella spirituale, cui corrisponde la libertà per.
Nelle condizioni storiche attuali, è bensì vero che la dimensione quantitativomateriale fa aggio – e tanto – sulle altre due, ma ciò non legittima affatto la conclusione che riducendo (o annullando) la crescita – che rinvia alla sola dimensione quantitativo-materiale – si favorisca l’avanzamento delle altre due dimensioni. Anzi, si può dimostrare – ma non è questa la sede – che è vero proprio il contrario. Ecco perché preferisco parlare di sviluppo umano integrale, di uno sviluppo, cioè, che deve tenere in armonico e mutuo bilanciamento le tre dimensioni di cui sopra. Un tale obiettivo si realizza attraverso un mutamento della composizione – e non già del livello – del paniere dei beni di consumo: meno beni materiali, più beni relazionali e immateriali e soprattutto più beni comuni (da non confondersi con i beni pubblici o con i beni collettivi).E’ possibile ciò? Certo che lo è, come il filone di studi dell’economia civile da Antonio Genovesi (1753) in avanti ha indicato e come talune esperienze – per la verità ancora modesta - vanno dimostrando.
L’antidoto dunque all’attuale modello consumistico non è la decrescita, quanto piuttosto l’economia civile – un programma di ricerca e uno stile di pensiero, tipicamente italiani, ben noti in Europa fino alla metà del Settecento, ma che da allora sono stati obnubilati dal paradigma dell’economia politica. Si  notino le differenze: mentre l’economia civile è finalizzata al bene comune, l’economia politica mira piuttosto al bene totale. Laddove quest’ultima ritiene di poter risolvere i problemi della sfera economico-sociale appoggiandosi sui soli principi dello scambio di equivalenti e di redistribuzione, l’economia civile aggiunge a questi due principi quello di reciprocità, che è il precipitato pratico della fraternità.
La novità della economia civile è nell’avere restituito alla fraternità quel ruolo centrale nelle sfere dell’economico e del sociale che la Rivoluzione francese e l’utilitarismo di Bentham avevano completamente cancellato.
In secondo luogo, per paradossale che ciò possa apparire, la tesi della decrescita rischia di eludere la natura vera del problema e ciò nella misura in cui essa si limita a porre il segno meno al paradigma dell’economia politica, non costituendone il superamento. Il fatto è che la crescita è una dimensione fondamentale di ogni essere vivente. Come dice F. Capra, non c’è vita senza crescita. Certo, va sempre tenuto a mente che quello della crescita non è un processo lineare, come Steven Gould ha persuasivamente mostrato con la sua teoria degli equilibri punteggiati. Continuare allora a parlare di decrescita (meno industria, meno consumi, ecc.) vale a distogliere l’attenzione (e lo sforzo) dal vero problema, che è duplice. Per un verso, quello di trovare il consenso necessario su quale crescita si vuole puntare; per l’altro verso, quello di individuare come passare da un sistema che, come l’attuale, è centrato su un’idea di crescita illimitata ad un altro che invece accolga al proprio interno la nozione di limite (delle risorse, ambientale, energetico, alle disuguaglianze sociali). A questo scopo, ci occorre un’analisi di traversa (nel senso di J. Hicks) e non già un’analisi di dinamica comparata, come invece si continua a fare. Ricordo sempre, in argomenti del genere, la celebre frase di F. Kafka: “Esiste un punto di arrivo, ma nessuna via”. (Il Castello). A poco serve sapere che c’è la possibilità di arrivare ad un equilibrio superiore se non si indica il sentiero (di traversa) per raggiungerlo.
Se la crisi è anche e soprattutto spirituale (ha cioè a che vedere con lo spirito che ha animato in Occidente la stagione storica che è ormai alle nostre spalle) allora non basta ridurre o addirittura annullare l’espansione quantitativa. E’ la direzione che va mutata e per far questo ci vuole un pensiero forte che mai prescinda dalla nostra condizione di esseri liberi. Su questo il movimento della decrescita mi pare silente. La nuova stagione di crescita che dobbiamo auspicare non può essere una mera espansione quantitativa, ma una eccedenza qualitativa in grado di valorizzare la vera ricchezza di cui disponiamo, che solo una comunità di uomini liberi può sprigionare. Se invece si continua a demonizzare il mercato, questo diventerà davvero un luogo infernale. La sfida da vincere è piuttosto quella della sua umanizzazione, ovvero della sua civilizzazione.
Un’ultima annotazione. L’idea di Latouche e degli altri studiosi che si riconoscono nel programma di ricerca della decrescita è che sia ormai indilazionabile il salto cosiddetto di paradigma. Poiché è la stessa società dei consumi e della crescita senza limiti a costituire il problema, è urgente “uscire dall’economia”. Per quanto evocativa, tale espressione è fuorviante perché ambigua. Infatti, se economia sta qui a significare il problema economico in quanto tale, una tale proposta è priva di senso. Perché, come la letteratura di antropologia economica da tempo ha documentato, quello economico è il
primo (in senso temporale) problema degli umani, un problema che si pone sia prima di quello politico – che principia quando Caino, dopo l’uccisione di Abele, fonda la prima città - sia prima di quello giuridico – che nasce quando Romolo uccide Remo. Uscire dall’economia, in quel senso, sarebbe allora come uscire dalla “casa” dell’uomo. Se invece l’espressione richiamata viene presa a significare la fuoriuscita da un certo discorso economico e da un certo paradigma teorico, ciò è certamente necessario. Il mainstream economico, al pari di tutte le forme di pensiero egemone, ha finito col far credere che l’economia è solo scambio di equivalenti e che il mercato può essere popolato solo da homines oeconomici – il che è attualmente falso. Fuoriuscire da questa economia vuol dire allora fuoriuscire dall’economia? Crederlo sarebbe cadere in un grave errore di ingenuità epistemologica; ma soprattutto sarebbe cadere nella trappola tesa dal paradigma che si vuole abbattere. Sarebbe come concludere che, poiché il modello della scelta razionale (rational choice) è aporetico e incapace di dare conto di grossi ambiti della realtà, si deve rinunciare alla nozione stessa di razionalità del comportamento umano. E invece basta cambiare il modello di razionalità.
La risposta alla crisi non è come porre rimedio alle condizioni di eccesso che hanno reso la nostra una “società obesa”, in senso figurato, ma non è neppure la decrescita che si ferma al solo piano quantitativo, del più e del meno.
L’alternativa all’obesità non è infatti la denutrizione, ma il discernimento. (A meno che con l’espressione decrescita felice si intenda far riferimento ad un progetto globale come quello, ad esempio, dell’economia civile).
Vado a chiudere. La battaglia contro i guasti economici, sociali e morali di questa crisi presuppone quello che Irving Howe definì un “lavoro stabile”, riferendosi ad una storiella ebraica. Questa: la comunità ebraica di un paese polacco incaricò un suo membro di stazionare all’ingresso dell’abitato in attesa del Messia, in modo che, quando lo avesse visto arrivare, potesse avvertire tutti gli altri di tenersi pronti. Qualcuno chiede all’uomo: “E questo sarebbe un lavoro? Stare fermi in attesa della venuta del Messia?” Immediata la risposta: “Sì, è un lavoro. La remunerazione è modesta, ma è un lavoro stabile”. (Cit. in R. Jahanbegloo, Conversazioni con Michael Walzer, Marsilio, Venezia, 2012). Anche lo sforzo per attuare le ragioni di un modo diverso di fare economia è un “lavoro stabile”, scarsamente ricompensato, ma esaltante. Tutte le battaglie per affermare grandi idee sono esposte alla eterogenesi dei fini – che spesso indirizza il nostro agire lontano dagli esiti che intendevano conseguire – ma rendono tanto felici.

domenica 15 settembre 2013

Una crisi di senso, dunque di direzione - Stefano Zamagni 5di6

Una crisi di senso, dunque di direzione - Quinta parte



    Parecchi e di diversa natura sono i moniti che possiamo trarre da questa crisi entropica. In questa sede, mi limito, per ragioni di spazio, a commentarne due. Il primo ha a che vedere con quello che possiamo chiamare il “fallimento” della disciplina economica. Si tratta un fallimento che ha iniziato a manifestarsi un quarto di secolo fa, e che ha il suo fondamento nell’affermazione di un pensiero unico – il c.d. mainstream economico – che ha prodotto una schiera di modelli di equilibrio - raffinatissimi sotto il profilo logico-matematico – che escludono a priori tutti quei fattori, tipici del mondo reale, da cui dipendono i risultati che è dato osservare. Si pensi all’eterogeneità dei sistemi motivazionali degli agenti economici; alla pluralità delle regole decisionali seguite dai policy-makers, cioè dai decisori politici; alla variabilità dei contesti sociali tra paese e paese; alla diversità delle matrici culturali che contraddistinguono i vari Stati; e così via.
      A partire dalla scelta (non tecnica, ma di valore) di unicità di comportamento che parte di tutti gli agenti – la celebre ipotesi dell’homo oeconomicus, di irrilevanza degli assetti giuridico-istituzionali, di irrilevanza dei principi etici nella sfera delle relazioni economiche (bene resa dall’aforisma “gli affari sono affari”), la teoria economica dominante ha prodotto studi e ricerche il cui esito finale era quello di rassicurare, sia le autorità pubbliche sia la gente comune, che praticaemente mai una crisi finanziaria si sarebbe potuta verificare.
Se si sfogliano i libri di testo di macroeconomia e di finanza, in uso presso la quasi totalità delle Università dove studiano coloro che poi diverranno manager o uomini d’affari, questo è il messaggio che viene veicolato. E’ così accaduto che nell’ora del bisogno, nel momento in cui la crisi stava raggiungendo il suo apice, coloro che sarebbero dovuti intervenire prontamente per correggere o per porre rimedio si sono trovati a navigare nel buio, senza guida alcuna di carattere scientifico. E’ in questo preciso senso che si può parlare di crisi profonda della disciplina economica.
      Giova precisare che quanto denunciato costituisce una novità di questo nostro tempo. Infatti, se c’è un tema che, sin dagli albori delle disciplina, ha sempre intrigato la mente degli economisti, quale che fosse la specifica scuola di pensiero di appartenenza, è proprio quella delle crisi economiche e finanziarie, a far tempo da W. Petty (1693), passando per W. Bagehot (1873), S.W. Jevons (1871), fino a C. Kindleberger (1983) e soprattutto H. Minsky (1986). Invece, la notizia buona diffusa a piene mani dal mainstream è stata che non mette conto occuparsi della crisi perché, sotto le ipotesi di cui sopra, queste risultano altamente improbabili. Un esempio rivelatore di questa opinione comune lo troviamo nell’accurato studio sulle implicazioni della gestione del rischio dei CDO – una ormai ben nota categoria di derivati – di Krahnen e Wilde, i quali menzionano bensì la possibilità di un aumento eccessivo del rischio sistemico, ma subito concludono che il sistema bancario non ha da preoccuparsi perché comunque è compito dei governi nazionali farsi carico dell’assicurazione contro i probabili default e insolvenze. (J.P. Krahnen, C. Wilde, “Risk transfer with CDO and systemic risk banking”, Center for Financial Studies, Frankfurt, WP 4, 2006). Un vero professionista mai potrebbe scrivere cose del genere.
      Sorge la domanda: come darsi conto di tale dimenticanza; come spiegare questa ossessiva focalizzazione sulle situazioni di equilibrio, quando la realtà e la storia economica mostrano che è il disequilibrio la cifra delle economia di mercato? Per dare risposte, è indispensabile chiarire che a differenza di quanto accade nelle scienze naturali, la scienza economica è sotto l’influenza della tesi della doppia ermeneutica, secondo cui le teorie economiche sul comportamento umano incidono, tanto o poco, presto o tardi, sul comportamento stesso dell’uomo. Quanto a dire che la teorizzazione in ambito economico mai lascia immutato il suo campo di studio, dal momento che essa non solo plasma le mappe cognitive dell’agente economico, ma gli indica anche la via che deve essere seguita se si vuole conseguire in modo razionale lo scopo. Ora, se quest’ultimo è la massimizzazione del profitto (o altra specificazione della funzione obiettivo) e se, come è ovvio, lo scopo di un’azione prescrive quali debbano essere i mezzi richiesti per realizzarlo, il circolo ermeneutico è presto chiuso. E’ per questa fondamentale ragione che l’economista non può trincerarsi dietro una presunta neutralità assiologica nel momento in cui produce modelli e teorie - soprattutto quando è consapevole del fatto che i prodotti del suo lavoro scientifico generano un certo modo di pensare e vengono presi come base di riferimento dal decisore politico. 
      L’argomento così frequentemente utilizzato nel dibattito pubblico secondo cui l’analisi economica, come analisi del comportamento degli operatori economici, ha da essere amorale, mentre la pratica e l’insegnamento dell’economia devono essere influenzati da opzioni morali, sarebbe valido se non fosse vera la tesi della doppia ermeneutica – che invece è verissima. Ne deriva che il modo in cui l’economista produce conoscenza scientifica e il modo in cui i risultati della stessa vengono presentati trasmettono, in forme sottili e spesso subdole, ben precisi giudizi di valore che finiscono con il forgiare la forma mentis di coloro ai quali quei risultati sono rivolti. Un recente studio sperimentale svolto all’Università di Cornell (USA) dimostra che non solamente persone egoiste (cioè autointeressate e opportuniste) sono attratte dagli studi economici, ma anche che, dopo aver seguito i corsi di economia, gli studenti diventano maggiormente egoisti. E’ forse per questo che un grande economista liberale come Luigi Einaudi, già nel 1942, scriveva: “Dopo aver lungamente creduto anch’io che ufficio dell’economista non fosse di porre i fini al legislatore, bensì quello di ricordare come… qualunque sia il fine perseguito dal politico, i mezzi adoperati debbono essere sufficienti e congrui, oggi dubito e forse finirò col concludere che l’economista non possa distinguere il suo ufficio di critico dei mezzi da quello di dichiaratore di fini; che lo studio dei fini dei mezzi, al quale gli economisti si restringono”. (Presentazione di Introduzione alla politica economica di C. Bresciani Turroni, Einaudi, Torino, 1942, pp.15-16; corsivo aggiunto).
      Nel caso specifico di cui ci stiamo occupando, dove si è maggiormente manifestata questa assenza di responsabilità da parte degli economisti, una assenza che è consistita nel non aver fatto tesoro, quanto meno, del principio di precauzione nel suggerire determinate linee di azione? In primo luogo, nell’aver fatto credere che quello di efficienza fosse un criterio oggettivo (cioè neutrale rispetto ai giudizi di valore) di scelta tra opzioni alternative. E’ vero invece che si può utilizzare il criterio di efficienza, e in forza di questo prendere decisioni, solo dopo che si è fissato il fine che si intende perseguire. Quanto a dire che l’efficienza è strumento per un fine e non un fine in sé. Affermare pertanto che i comportamenti di banchieri e trader – che in massa si sono gettati nel gioco della speculazione finanziaria nel corso dell’ultimo ventennio – devono considerarsi legittimati dalla circostanza che costoro seguivano un canone di razionalità volto ad assicurare un’efficiente allocazione delle risorse finanziarie, è a dir poco una tautologia, indice di plateale sprovvedutezza metodologica.
      C’è un secondo ambito dove l’influenza del mainstream economico è stata decisiva nel contribuire a determinare il disastro finanziario. Si tratta del retroterra teorico che ha avvalorato il principio della massimizzazione dello shareholder value. In breve, si tratta di questo. Tre sono le concezioni con cui la teoria microeconomica guarda all’impresa: l’impresa come associazione; l’impresa come coalizione; l’impresa come merce. La prima vede l’impresa come comunità, cui prendono parte diversi portatori di interessi (lavoratori; investitori; clienti; fornitori; territorio), che cooperano per conseguire un comune obiettivo, e che è organizzata per durare nel tempo. E’ questa l’idea - si badi - da cui nasce la “corporation” americana, la quale in origine è un ente non profit la cui governance viene mutuata da quella dei monasteri benedettini e cistercensi. Come da secoli insegna la scuola aziendalistica italiana, l’impresa è un bene di per sé e, poiché tale, non può essere lasciata ai capricci del mercato, e di quello finanziario in special modo. La concezione dell’impresa come coalizione, invece, si sviluppa a partire dal pioneristico contributo del premio Nobel Ronald Coase, che nel celebre saggio del 1937 “Perché esiste l’impresa” difende la tesi secondo cui l’impresa nasce per risparmiare sui costi di transazione, cioè sui costi d’uso del mercato. Ogni negoziazione di mercato, infatti, implica specifici costi e dunque un’impresa ha ragione di esistere fin tanto che i costi di transazione superano i costi di esercizio della proprietà. Quanto a dire che, se per una ragione o l’altra, si riuscisse ad abbassare considerevolmente i costi di transazione, non vi sarebbe bisogno alcuno dell’impresa.
      Come giustificare in positivo, sotto il profilo teorico-economico, la tesi del primato dell’azionista su tutti gli altri stakeholder? La risposta arriva nel 1976 quando M. Jensen e W. Meckling pubblicano il loro  importante contributo dal quale prende avvio la teoria dell’agenzia: gli azionisti, in quanto proprietari dell’impresa, sono il principale il cui fine è quello di ottenere i più elevati profitti possibili. Per conseguire ciò, essi si affidano all’opera di un agente – amministratori e/o dirigenti – il cui obiettivo è però quello di massimizzare la propria funzione di utilità.
      Certo, il problema del disallineamento tra la funzione obiettivo del principale e quella dell’agente non si porrebbe se il contratto che il primo stipula con il secondo fosse completo. (E’ tale un contratto nel quale sono puntualmente specificati tutti gli adempimnenti connessi alle obbligazioni assunte e nel quale sono indicate le conseguenze, con relative sanzioni, che discendono da eventuali defezioni o violazioni degli accordi pattuiti). Ma asimmetrie informative, da un lato, e previsione imperfetta, dall’altro, sono i due principali fattori causali responsabili dell’incompletezza contrattuale. Di qui la ricerca, da parte del principale, di schemi di incentivo che valgano ad indurre l’agente a cercare la massimizzazione del valore di lungo periodo dell’impresa, così come questo si riflette nella quotazione di borsa del titolo. I vari piani di stock options a favore dei manager sono solo uno degli strumenti - forse il più noto e il più usato – per realizzare l’allineamento delle funzioni obiettivo di principale e agente, attraverso il contenimento di comportamenti opportunistici da parte di quest’ultimo. Come B. Frey e M. Osterloh hanno documentato con precisione, a partire dal 1980 gran parte delle remunerazioni attribuite al top management ha preso la forma di stock options. La conseguenza è stata devastante: nel 1970 un alto dirigente americano guadagnava 25 volte di più di un lavoratore medio dell’industria. Nel 1996, il medesimo rapporto era passato a 210 e nel 2000 a 500. (Oggi, esso è intorno a 700). Eppure, la performance delle imprese guidate da questi alti dirigenti non è aumentata nella stessa misura. (“Yes, managers should be paid like burocrats”, CESifo, Dic. 2004). E’ la presa d’atto di tale profonda discrasia ad aver “costretto” lo stesso Jensen ad ammettere di fronte all’esagerato corto termismo e all’aumento del numero degli scandali societari che “le stock options si sono dimostrate eroina (sic!) manageriale”. (“On CSR”, The Economist, 16, Nov. 2002, p.66).
      Grande – e forse non previsto – è stato il successo riscosso da questa linea di pensiero. E’ agevole comprenderne le ragioni. Primo, perché con la semplice metrica del prezzo dell’azione si riesce a sintetizzare tutte le variabili che dicono della performance aziendale (fatturato; numero di occupati; struttura del capitale; acquisizioni societarie; ecc.). E non v’è chi non veda come un tale vantaggio informativo rappresenti una ragione più che sufficiente per esaltare la retorica del primato dell’azionista. Secondo, perché la teoria dello shareholder value consente di individuare in fretta il colpevole degli insuccessi e, soprattutto, dei rovesci aziendali. Quando ciò accade, la colpa è dell’agente – cioè del manager – che si è comportato in maniera opportunistica tradendo la fiducia del suo principale. Come ha bene spiegato il celebre antropologo Renè Girard, la ricerca del capro espiatorio ha sempre un grande effetto liberatorio: non è il sistema – in questo caso la visione di impresa come merce – che va cambiato, ma la coscienza morale dei manager. Come si vedrà nel prossimo capitolo, è questa una posizione insostenibile sotto il profilo etico.
      Alla fine degli anni ’90, il trionfo della tesi dello shareholder value era ormai cosa fatta: neppure la si poteva porre in discussione. Tanto che nel 2001, R. Kreakman e H. Hansmann sul Georgetown Law Journal pubblicano un articolo dal titolo rivelatore, “The end of history of corporate law”, nel quale si legge: “Le elites accademiche, aziendali e politiche hanno ormai raggiunto il consenso sul principio che il controllo ultimo sull’impresa deve spettare alla classe degli shareholder. I manager hanno il compito, obbligante, di guidare l’impresa nell’interesse dei suoi azionisti, dal momento che le altre classi di stakeholder (creditori, occupati, fornitori, clienti) vedono i loro interessi protetti maggiormente da standard contrattuali e regolamentari che non dalla loro partecipazione al governo dell’impresa…. Il valore di mercato delle azioni è la principale misura degli interessi degli azionisti”. Dopo gli eventi che hanno accompagnato la grande crisi del 2007-2008, queste parole suonano, a dir poco, ironiche. Scambiando una fine d’atto con la fine della rappresentazione, gli autori del brano confermano quanto resiliente sia la forza dell’ideologia.
      Perché il pensiero unico dello shareholder value non mantiene, nella pratica, quel che promette in teoria, tanto che perfino i suoi stessi sostenitori hanno, da qualche tempo, cominciato a prenderne le distanze? Perché le raccomandazioni per il manager che discendono dalla teoria di cui si sta parlando (riduzione della forza lavoro; vendita degli asset non direttamente necessari al processo produttivo; riduzione dei margini di sicurezza; diminuzione dell’assistenza ai clienti; riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo; lobbismo con pratiche corruttive nei confronti dei regolatori; ecc.) si rivelano, nella realtà, fallimenti? Perché, infine, la distanza tra interessi degli azionisti e interessi degli altri stakeholder non è così ampia come si è cercato finora di far credere e perché nessuna evidenza empirica dimostra che le imprese gestite secondo la logica del valore per l’azionista esibiscono una performance di lungo periodo migliore di quella di imprese che attuano la RSI? Rispondere a domande del genere significa cercare di comprendere quali apòrie si nascondono nelle pieghe dello shareholder model (noto anche come finance model).
      Infatti, di chi è agente il manager? Della classe degli azionisti oppure dell’impresa stessa? La dottrina giuridica (e la stessa giurisprudenza) non hanno dubbi al riguardo: poiché l’impresa è una persona giuridica, è questa il principale della relazione di agenzia. Eloquente al riguardo il testo dell’art.2086 del codice civile italiano: “L’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”. Va da sé che si può essere “capi” solamente di un ente che esiste – l’impresa, appunto, come persona giuridica.
Diversa, invece, la risposta che danno i teorici dell’agenzia. Per costoro, l’impresa è una mera finzione giuridica. Poiché l’impresa non esiste in quanto tale, il principale non può che essere la classe degli azionisti. Scrivono Jensen e Meckling (1976): “L’impresa privata è semplicemente una forma di finzione legale che serve come rete per intessere relazioni contrattuali ed è inoltre caratterizzata dall’esistenza di pretese residuali sui beni e sugli utili dell’organizzazione, beni che possono in generale essere venduti senza il permesso degli altri contraenti” (p.171).
Sulla medesima linea si muovono Fama e Jensen (“Separation of ownership and control”, Journal of Political Economy, 1980) quando scrivono: “L’impresa è semplicemente l’insieme di contratti che concernono il modo in cui gli input vengono combinati per creare gli output” (p.288). Quel che colpisce di questa scuola di pensiero è che proprio negli USA, già alla fine dell’Ottocento, il Santa Clara Act aveva sancito che all’impresa doveva essere riconosciuto il medesimo status giuridico dei cittadini: gli uni e l’altra godono sia dei diritti sia dei doveri di cittadinanza – come D. Lutz (“Beyond business ethics”, Oikonomia, 2003) ha bene chiarito.
      Quale la conseguenza, rilevante ai fini presenti, di questa discrasia tra la dottrina giuridica e quella economica? Che se si accoglie il punto di vista dei teorici dell’agenzia, allora ha certamente senso chiedere al manager, in quanto agente degli azionisti, di massimizzare lo shareholder value. Ma in tal modo non si può sperare di risolvere il conflitto di interesse che oppone gli azionisti al manager invocando il principio del primato degli azionisti sugli altri stakeholder. (Tale principio – come noto - viene giustificato con la considerazione che, essendo l’azionista il proprietario dell’impresa, egli va soggetto ad un rischio ulteriore rispetto a quello degli altri stakeholder nel caso di rovesci aziandali). La ragione è semplice ed è che per poter chiamare in causa il diritto di proprietà come fondamento del principio della shareholder primacy occorre ammettere, come la dottrina giuridica da sempre sostiene, che il principale della relazione di agenzia è l’impresa e non già l’azionista. Ma allora se il manager ha da essere agente dell’impresa come entità legale indipendente che possiede se stessa, egli ha anche l’obbligo di massimizzare la funzione obiettivo di quest’ultima, la quale include tra i suoi argomenti, sia  l’interesse degli azionisti, sia quello degli altri stakeholder.
In buona sostanza, l’errore della teoria dell’agenzia è nell’accettazione di un assunto che è fattualmente falso, perché l’impresa non è posseduta dall’azionista, il quale è semplicemente il proprietario di un pacchetto azionario che ha acquistato dall’impresa in seguito ad un normale contratto di compravendita. In forza di tale contratto, l’azionista acquisisce limitati poteri sulla gestione dell’impresa, poteri di poco superiori a quelli di un qualsiasi obbligazionista. In realtà, l’impresa è controllata dal consiglio di amministrazione che dispone di tutto il potere discrezionale necessario alla gestione. Il potere degli azionisti è quello di esonerare o denunciare gli amministratori e eventualmente di vendere le proprie azioni in caso di disaccordo radicale. Dunque, è il consiglio di amministrazione, non l’azionista , il principale, del quale il manager è l’agente. Ebbene, secondo quanto sancisce la forma di legge, compito precipuo del Consiglio è quello di bilanciare gli interessi di tutti gli stakeholder dell’impresa. Tanto è vero che in nessuna legislazione, né in alcun sistema di governance societaria sta scritto che l’impresa deve massimizzare il profitto e basta.

giovedì 12 settembre 2013

Una crisi di senso, dunque di direzione - Stefano Zamagni 4di6

Una crisi di senso, dunque di direzione - Quarta parte


      Infine, di una terza separazione al fondo della crisi attuale mette conto dire.
Si tratta di questo. Da sempre la teoria economica – specialmente quella della scuola di pensiero neo-austriaca – sostiene che il successo e il progresso di una società dipendono crucialmente dalla sua capacità di mobilizzare e gestire la conoscenza che esiste, dispersa, tra tutti coloro che ne fanno parte. Infatti, il merito principale del mercato, inteso come istituzione socio-economica, è proprio quello di fornire una soluzione ottimale al problema della conoscenza. Come già F. von Hayek ebbe a chiarire nel suo celebre (e celebrato) saggio del 1937, al fine di incanalare in modo efficace la conoscenza locale, quella cioè di cui sono portatori i cittadini di una società, è necessario un meccanismo decentralizzato di coordinamento, e il sistema dei prezzi di cui il mercato basicamente consta è esattamente quel che serve alla bisogna. Questo modo di vedere le cose, assai comune tra gli economisti, tende tuttavia ad oscurare un elemento di centrale rilevanza.
      Invero, il funzionamento del meccanismo dei prezzi, come strumento di coordinamento, presuppone che i soggetti economici condividano e perciò comprendano la “lingua” del mercato. Come illustra C. Tognato (2006), pedoni e automobilisti si fermano di fronte al semaforo che segna il rosso perché condividono il medesimo significato della luce rossa. Se quest’ultima evocasse, per alcuni, l’adesione ad una particolare posizione politica e, per altri, un segnale di pericolo è evidente che nessun coordinamento sarebbe possibile, con le conseguenze che è facile immaginare. L’esempio suggerisce che non uno, ma due, sono i tipi di conoscenza di cui il mercato ha bisogno per assolvere al compito principale di cui sopra si è detto. Il primo tipo è depositato in ciascun individuo ed è quello che – come bene chiarito dallo stesso F. von Hayek – può essere gestito dai normali meccanismi del mercato. Il secondo tipo di conoscenza, invece, è quella di tipo istituzionale che circola tra i vari gruppi di cui consta la società ed ha a che vedere con la lingua comune che consente ad una pluralità di individui di condividere i significati delle categorie di discorso che vengono utilizzate e di intendersi reciprocamente quando vengono in contatto.
      Tognato (2006) ha bene chiarito che, in qualsiasi società coesistono molti linguaggi diversi, e il linguaggio del mercato è solamente uno di questi. Se questo fosse l’unico, non ci sarebbero problemi: per mobilizzare in modo efficiente la conoscenza locale di tipo individuale basterebbero gli usuali strumenti di mercato. Ma così non è, per la semplice ragione che le società contemporanee sono contesti multi-culturali nei quali la conoscenza di tipo individuale deve viaggiare attraverso confini linguistici ed è questo che pone difficoltà formidabili.
Il pensiero neo-austriaco ha potuto prescindere da tale difficoltà assumendo, implicitamente, che il problema della conoscenza di tipo istituzionale di fatto non esistesse, ad esempio perché tutti i membri della società condividono il medesimo sistema di valori e accettano gli stessi principi di organizzazione sociale. Ma quando così non è, come la realtà ci obbliga a prendere atto, si ha che per governare una società “multi-linguistica” è necessaria un’altra istituzione, diversa dal mercato, che faccia emergere quella lingua di contatto capace di far dialogare i membri appartenenti a diverse comunità linguistiche. Ebbene, questa istituzione è la democrazia deliberativa. Questo ci aiuta a comprendere perchè il problema della gestione della conoscenza nelle nostre società di oggi, e quindi in definitiva il problema dello sviluppo, postula che due istituzioni – la democrazia e il mercato – siano poste nella condizione di operare congiuntamente, fianco a fianco. Invece, la separazione tra mercato e democrazia che si è andata consumando nel corso dell’ultimo quarto di secolo sull’onda dell’esaltazione di un certo relativismo culturale e di una esasperata mentalità individualistica ha fatto credere – anche a studiosi avvertiti – che fosse possibile espandere l’area del mercato senza preoccuparsi di fare i conti con l’intensificazione della democrazia.
      Due le principali implicazioni che ne sono derivate. Primo, l’idea perniciosa secondo cui il mercato sarebbe una zona moralmente neutra che non avrebbe bisogno di sottoporsi ad alcun giudizio etico perché già conterrebbe nel proprio nucleo duro quei principi morali che sono sufficienti alla sua legittimazione sociale.
L’argomento che sorregge tale tesi è il seguente. Il mercato è il luogo in cui la coordinazione delle decisioni economiche avviene mediante la cooperazione volontaria. E ciò per la fondamentale ragione che “entrambe le parti di una transazione economica ne beneficiano, a patto che la transazione sia bilateralmente volontaria e informata”. (M. Friedman, Capitalism and Freedom, 1962, p.13). Se ne trae che quando due (o più) parti, in assenza di inganno e di coercizione, e pertanto in grado di scegliere liberamente, danno vita ad una transazione economica, esse acconsentono pure alle conseguenze che da essa derivano. E’ in ciò la giustificazione etica, in economia, del consequenzialismo.
L’idea del consenso fondata sulla libertà di scelta è bene espressa da R. Posner quando scrive: “Sono dell’avviso che una persona che compra un biglietto della lotteria e poi perde, ha acconsentito alla perdita nella misura in cui non vi è traccia di frode o di costrizione” (The Economics of Justice, 1981, p.94). Dunque, al di fuori di questi ultimi casi, scegliere liberamente è dare il proprio consenso e acconsentire significa legittimare. Come osserva F. Peter, (“Choice, consent and the legitimacy of market transactions”, Economics and Philosophy, 2004), il mercato non ha alcun bisogno di chiedere certificati di legittimazione etica, dal momento che esso è capace di legittimarsi da solo. Non così lo Stato, invece, il quale per poter far uso della coercizione – che è lo strumento principale con il quale esso persegue i suoi obiettivi – ha bisogno dell’approvazione dei cittadini elettori, dai quali soli può ottenere la legittimazione di cui ha necessità. Cosa non regge in tale ragionamento?
      Basicamente, che non è quasi mai vero che la libertà di scelta postula il consenso. Così sarebbe se alla predisposizione del menu di scelta partecipasse il soggetto stesso della scelta – il che non è mai nella pratica. Il genitore che offre volontariamente – cioè senza costrizione alcuna – in vendita un suo organo per allentare il vincolo della miseria della sua famiglia, di certo non acconsente alle conseguenze che derivano dal suo gesto. La scelta libera di un’opzione ha forza legittimante solamente se anche l’insieme delle alternative in gioco è parte del problema di scelta del soggetto. Se tale insieme è dato esogenamente questa condizione non è affatto soddisfatta.
      E’ noto che la centralità della categoria del consenso è tipica della tradizione di pensiero contrattualista iniziata da Hobbes. L’idea è che se ho sottoscritto un contratto con te per realizzare qualcosa che ora non voglio più realizzare, tu puoi sempre rispondermi: “ma tu fosti allora d’accordo, ora sei obbligato a rispettare i termini contrattuali”. Come a dire che il consenso fonda l’obbligazione. Tra coloro che si riconoscono nella linea di pensiero contrattualista, nessuno meglio di J. Rawls è stato capace di mostrare che affinché dal consenso possa nascere un’obbligazione è necessario che i vincoli nel rispetto dei quali le parti del contratto prendono le loro decisioni possono essere da tutti condivisi.
Solamente se si riesce a mostrare che i partecipanti al contratto sociale hanno acconsentito (o avrebbero avuto motivo di acconsentire) alle regole del gioco che li vede coinvolti, allora si può legittimamente sostenere che l’accordo raggiunto per via di consenso sia obbligante.
      Ora, non ci vuole tanto per comprendere come nell’attuale crisi questa condizione non si sia realizzata affatto. Invero, la libertà di scelta descrive l’assenza di costrizione da parte di altri. Essa ha a che vedere con la possibilità di scelta, con l’esistenza cioè di un dominio o spazio entro cui il soggetto può esercitare la sua signoria. Ma ciò nulla dice ancora della capacità di scelta, vale a dire dell’esercizio effettivo della scelta. Non basta avere un’ampiezza di scelte se poi non si sa scegliere oppure non si ha la potenzialità di convertire i mezzi in capacità di promuovere i propri scopi. E’ questa la grande lezione di A. Sen (Lo sviluppo è libertà, Milano, 2000) quando ci ricorda – contra von Hayek, per esempio – che l’uso della libertà è in qualche modo essenziale alla definizione della stessa. Di una persona che è libera di realizzare il proprio piano d’azione, ma non ha la capacità di farlo, non si può certo dire che essa acconsenta alle conseguenze delle sue azioni. Se dunque il mercato non è capace di trovare in sé le ragioni capaci di fondarne la giustificazione, il ricorso all’etica diviene indispensabile.
      Come ci ricorda la tesi della doppia ermeneutica, le teorie economiche non sono mai meri strumenti neutrali di conoscenza e di spiegazione del comportamento umano, dal momento che esse inducono sempre, in qualche modo, mutamenti del comportamento. Non trasmettono, cioè, solo risultati di esperimenti o di simulazioni; sono anche, tanto o poco, strumenti di cambiamento del carattere degli uomini. E’ a J.L. Austin che si deve il concetto di performatività di una teoria economica per indicare l’influenza trasformativa della teoria sulla realtà. Ecco perché l’economista non può fare a meno di intrattenere uno speciale rapporto di buon vicinato con l’etica – sempre che voglia continuare a riconoscere alla propria disciplina la capacità sia di far presa sulla realtà sia di concorrere a modificarla. Se invece la preoccupazione dell’economista è semplicemente quella di costruire una macchina logica che consenta di misurare gli effetti di ogni data decisione economica su una data collettività, allora per uno scopo del genere il connubio tra economia e scienze fisico-naturali basta, e avanza. E tale considerazione basterebbe a sconfiggere da sola ogni pretesa di autoreferenzialità.
      V’è una seconda implicazione che è opportuno porre in risalto. Se la democrazia, che è un bene fragile, va soggetta a lento degrado, può accadere che il mercato sia impedito di raccogliere e gestire in modo efficiente la conoscenza, e quindi può accadere che la società cessi di progredire, senza che ciò avvenga per un qualche difetto dei meccanismi del mercato, bensì per un deficit di democrazia. Ebbene, la crisi economico-finanziaria in corso è la migliore e più cocente conferma empirica di tale proposizione. Si pensi, per fare un solo esempio, alla prevalenza, nelle sfere sia economica sia politica, del corto termismo (short termism), dell’idea cioè secondo cui l’orizzonte temporale delle decisioni ha da essere il breve periodo. La democrazia, invece, ha necessariamente di mira il lungo periodo. Se le preposizioni del mercato sono senza – contro – sopra (senza gli altri; contro gli altri; sopra gli altri), quelle della democrazia sono con-per-in (con gli altri; per gli altri; negli altri). In definitiva, abbiamo bisogno di ricongiungere mercato e democrazia per scongiurare il duplice pericolo dell’individualismo e dello statalismo centralistico. Si ha individualismo quando ogni membro della società vuol essere il tutto; si ha centralismo quando a voler essere il tutto è un singolo componente. Nell’un caso si esalta a tal punto la diversità da far morire l’unità del consorzio umano; nell’altro caso, per affermare l’uniformità si sacrifica la diversità.

lunedì 9 settembre 2013

Una crisi di senso, dunque di direzione - Stefano Zamagni 3di6

Una crisi di senso, dunque di direzione - Terza parte


Passo alla seconda separazione di cui sopra ho scritto. Per secoli l’umanità si è attenuta all’idea che all’origine della creazione di ricchezza c’è il lavoro umano – dell’un tipo o dell’altro non fa differenza. Tanto che Adam Smith apre la sua opera fondamentale, La Ricchezza delle Nazioni (1776) proprio con tale considerazione. Quale la novità che la finanziarizzazione dell’economia, iniziata circa un trentennio fa, ha finito col determinare? L’idea secondo cui sarebbe la finanza speculativa a creare ricchezza, molto di più e assai più in fretta dell’attività lavorativa. Una miriade di episodi e di fatti ce ne danno conferma. In Gran Bretagna – paese che ha dato i natali alla rivoluzione industriale – il settore manifatturiero contribuisce oggi con un modesto 12% al PIL nazionale e, fino al 2008, gli occupati nel settore della finanza erano giunti a oltre sei milioni di unità (oggi, metà di questi sono senza lavoro). Negli ultimi decenni, nelle migliori università del mondo, i dipendenti e i programmi di ricerca di business studies sono letteralmente esplosi, spiazzando e/o impoverendo altre aree di studio. (Si veda anche la distribuzione dei fondi tra aree di ricerca. E si vedano ancora le scelte dei corsi di laurea, o dei piani di studio, da parte degli studenti iscritti alle facoltà di economia). E così via. L’affermazione e la diffusione dell’ethos della finanza sono valsi - complici i media – ad accreditare il convincimento che non v’è bisogno di lavorare per arricchirsi; meglio tentare la sorte e soprattutto non avere troppi scrupoli morali.
      Le conseguenze di tale pseudo rivoluzione culturale sono sotto gli occhi di tutti. (Si pensi al maldestro tentativo di sostituire alla figura del lavoratore quella del cittadino-consumatore come categoria centrale dell’ordine sociale). Oggi, ad esempio, non disponiamo di un’idea condivisa di lavoro che ci consenta di capire le trasformazioni in atto. Sappiamo che a partire dalla Rivoluzione Commerciale dell’XI secolo, si afferma gradualmente l’idea del lavoro artigianale, che realizza l’unità tra attività e conoscenza, tra processo produttivo e mestiere – termine quest’ultimo che rinvia a maestria. Con l’avvento della rivoluzione industriale prima e del fordismo-taylarismo poi, avanza l’idea della mansione (segno di attività parcellizzate), non più del mestiere, e con essa la centralità della libertà dal lavoro, come emancipazione dal “regno della necessità”. E oggi, che siamo entrati nella società post-fordista, che idea abbiamo del lavoro? C’è chi propone l’idea della competenza declinata in termini di figura professionale, ma non ci si rende conto delle implicazioni pericolose che ne possono derivare. Una fra tutte: la confusione tra meritocrazia e principio di meritorietà, come se i due termini fossero sinonimi. La civiltà occidentale poggia su una idea forte, l’idea della “vita buona”, da cui il diritto-dovere per ciascuno di progettare la propria vita in vista di una civile felicità. Ma da dove partire per conseguire un tale obiettivo se non dal lavoro inteso quale luogo di una buona esistenza? La fioritura umana – cioè l’eudainomia nel senso di Aristotele – non va cercata dopo il lavoro, come accadeva ieri, perché l’essere umano incontra la sua umanità mentre lavora. Di qui l’urgenza di iniziare ad elaborare il  concetto di eudaimonia lavorativa che per un verso vada oltre l’ipertrofia lavorativa tipica dei tempi  nostri (il lavoro che riempie un vuoto antropologico crescente) e per l’altro verso valga a declinare l’idea di libertà del lavoro (la libertà di scegliere quelle attività che sono in grado di arricchire la mente e il cuore di coloro che sono impegnati nel processo lavorativo).
      Chiaramente, l’accoglimento del paradigma eudaimonico implica che i fini dell’impresa – quali che ne sia la forma giuridica – sono irriducibili al solo profitto, pur non escludendolo. Implica dunque che possano nascere e svilupparsi imprese a vocazione civile in grado di superare la propria autoreferenzialità, dilatando così lo spazio della possibilità effettiva di scelta lavorativa da parte delle persone. Non si dimentichi, infatti, che scegliere l’opzione migliore tra quelle di un “cattivo” insieme di scelta non significa affatto che un individuo si merita ciò che ha scelto.
La libertà di scelta fonda il consenso solamente se chi sceglie è posto nella condizione di concorrere alla definizione dell’insieme di scelta stesso. Aver dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sul principio dello scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad agire su trasferimenti di tipo assistenzialistico di natura pubblica, ci dà conto del perché sia così difficile passare dall’idea del lavoro come attività a quella del lavoro come opera.

Ma v’è di più. Porre l’origine della ricchezza nella finanza, anziché nel lavoro ha avuto, come effetto devastante quello di fare da amplificatore alla diffusione della pseudo cultura dell’avidità. Come sappiamo (Zamagni, Avarizia, Il Mulino, Bologna, 2009), l’avidità è un vizio capitale che raramente si palesa in quanto tale, indossando di volta in volta i panni dell’avidità, della cupidigia, della bramosia, dell’usura, della concupiscenza, della fame dell’oro, della taccagneria, della grettezza. Dal fastidio che ci suscita l’avidità degli altri, l’avido può dedurre quello che gli altri provano nei suoi confronti. Nell’interesse del suo amor proprio, l’avido è indotto a comportarsi come se non lo fosse. La capacità mimetica dell’avidità è tale che in determinate circostanze essa può addirittura assumere le sembianze della virtù come già Giovenale aveva intravisto. L’avarizia si dice in molti modi e se se ne vuole comprendere la natura specifica, è necessario guardare in trasparenza i suoi molti stili e prendere in considerazione le sue semantiche, così come esse si sono andate articolando nel corso del tempo.
      Soprattutto tra gli economisti, si è diffusa l’idea secondo cui l’avarizia sia un vizio, tutto sommato, minore e comunque facilmente correggibile con l’impiego di schemi adeguati di incentivo. Non è per caso se nei testi di economia, da quelli più raffinati a quelli di più ampia divulgazione, mai si parla di comportamento avaro.In tali lavori neppure si considera dotata di senso la domanda se le preferenze dell’homo oeconomicus siano avare o meno. Questi deve solamente pensare a comportarsi in modo razionale, massimizzando, sotto opportune condizioni, l’interesse proprio, quale che esso sia. Eppure, l’avarizia – il più “economico” dei vizi capitali – costituisce uno dei più frequenti casi di “fallimento della ragione” in ambito economico. Poiché difetta di una ragione ben conformata, l’avaro non sa indirizzare la passione dell’avere che alberga in ciascun essere umano; in particolare, non sa indicare a tale passione – di per sé fisiologica – i beni che è ragionevole appetire. L’avaro tesaurizza, accaparra ricchezza sottraendola alla circolazione; non facilita la produzione, ma la ostacola fino a comportamenti dissipativi. E’ un fatto che l’assenza in economia di una teoria delle motivazioni ad agire razionalmente – quali motivi abbiamo per fare ciò che riconosciamo di dover fare – è ciò che spiega l’inadeguatezza della disciplina a comprendere il fenomeno dell’avarizia nelle sue molteplici manifestazioni (tanto è vero che non ne tratta): perché l’avaro continua ad accumulare insaziabilmente pur sapendo che il potere che la ricchezza gli conferisce mai potrà essere realizzato? L’economia possiede bensì una teoria delle ragioni per fare quel che l’homo oeconomicus giudica di dover fare, ma non una teoria dei motivi per fare ciò che questi riconosce di dover fare.
      Qual è la natura propria dell’avidità? Esiste nell’essere umano un sentimento che spinge alla ricerca appassionata di ciò che si confà alle sue esigenze, che ha il nome di desiderio. Il desiderio umano, quando non è deviato, si volge alle cose come a dei beni che lo appaghino. Ma può sbagliare mira. Perché alcuni dei beni cui esso si volge sono beni apparenti, cioè mali: beni che sembrano soddisfarlo,
ma che in realtà lo piegano verso il disordine e lo spingono verso l’infelicità. Il desiderio è in sé  l’energia della vita, ma si possono desiderare cose che fanno fiorire e cose che ci fanno appassire. Ebbene, l’avidità è un desiderio che fa appassire. E’ il deragliamento del desiderio che cresce su se stesso. Sappiamo perché. I beni diventano beni, cioè cose buone, quando sono messi in comune. I beni non condivisi sono sempre vie di infelicità, persino in un mondo opulento. Il denaro tenuto stretto, come geloso possesso, in realtà impoverisce il suo possessore, perché lo spoglia della capacità di dono. L’avido, per definizione, non riesce a donare e dunque non può essere felice. Può fare regali, può cioè impegnarsi in pratiche filantropiche se ciò gli serve, strumentalmente, ad accrescere il suo possesso.

venerdì 6 settembre 2013

Una crisi di senso, dunque di direzione - Stefano Zamagni 2di6

Una crisi di senso, dunque di direzione - Seconda parte


   Una delle tante eredità non certo positive che la modernità ci ha lasciato è il convincimento in base al quale titolo di accesso al “club dell’economia” è l’essere cercatori di profitto; quanto a dire che non si è propriamente imprenditori se non si cerca di perseguire esclusivamente la massimizzazione del profitto. In caso contrario, ci si deve rassegnare a far parte della sfera del sociale, dove appunto operano le imprese sociali, le cooperative sociali, le fondazioni di vario tipo, ecc. Questa assurda  concettualizzazione – a sua volta figlia dell’errore teorico che porta a confondere l’economia di mercato, che è il genus, con quella sua particolare species che è il sistema capitalistico – ha finito con l’identificare il mercato con il luogo della produzione della ricchezza (un luogo il cui principio regolativo è l’efficienza) e a pensare il sociale come il luogo della redistribuzione dove la solidarietà e/o la  compassione (pubblica o privata che sia) sono i suoi canoni fondamentali. Si sono viste e stiamo vedendo le conseguenze di tale separazione. Come il celebre storico-economico Angus Madison ha mostrato, negli ultimi trent’anni gli indicatori della diseguaglianza sociale, tra stati e all’interno del medesimo stato, hanno registrato aumenti semplicemente scandalosi, anche in quei paesi dove il welfare state ha giocato un ruolo importante in termini di risorse amministrate. Eppure, schiere di economisti e di filosofi della politica hanno creduto per lungo tempo che la proposta Kantiana: “facciamo la torta più grande e poi ripartiamola con giustizia” fosse la soluzione del problema dell’equità. Non si può non ricordare, a tale proposito, la potenza espressiva dell’aforisma lanciato dal pensiero economico neo-conservatore secondo cui “una marea che sale solleva tutte le barche”, da cui la celebre tesi dell’effetto di sgocciolamento (trickle-down effect): la ricchezza, a mò di pioggia benefica irrora prima o poi tutti, anche i più poveri. E dire che già il grande economista francese Leon Walras, nel 1873, aveva avvertito: “quando porrete mano alla ripartizione della torta non potrete ripartire le ingiustizie commesse per farla più grande”. Parole queste che la crisi attuale ha tristemente inverate.
   Negli ultimi tre anni, hanno visto la luce sei libri importanti di autori autorevoli sul tema della giustizia sociale. Si tratta dei saggi di A. Sen (L’idea di giustizia, Mondadori, 2010); M. Sandel (Giustizia. Il nostro bene comune, Feltrinelli, 2010); R.Dworkin (Giustizia per porcospini, 2011), P. van Parijs (Democrazia giusta: il programma Rawls-Machiavelli, 2012); J. Stiglitz, The price of inequality, Norton, 2012); R. Skidelsky, How much is enough? New York, 2012). Come darsi conto di una tale concentrazione di interesse su un tema tanto antico quanto di estrema attualità? La risposta che do è che è l’aumento preoccupante, anno dopo anno, delle disuguaglianze sociali sia nei paesi dell’Occidente avanzato sia a livello mondiale ad aver riacutizzato l’interesse di filosofi, economisti e scienziati sociali su una duplice questione: perché le disuguaglianze vanno aumentando più velocemente dell’aumento del reddito nazionale e perché così scarsa è l’attenzione dell’opinione pubblica nei confronti di un fenomeno così devastante?
Il recentissimo saggio del noto statistico-economico Branko Milanovic, Chi ha e chi non ha (Il Mulino, Bologna, 2012) ci aiuta a darne la spiegazione.
   Tesi centrale di questo autore è che la disuguaglianza non è un destino e neppure una costante temporale o spaziale. Non è un destino, perché essa ha a che vedere con le regole del gioco economico, cioè con l’assetto istituzionale che un paese decide di darsi. Si pensi ad istituzioni economiche come il mercato del lavoro, il sistema bancario, il modello di welfare, il sistema fiscale etc. A seconda di come queste vengono disegnate, si hanno conseguenze diverse circa il modo in cui reddito e ricchezza si ripartiscono tra coloro che hanno concorso a produrli. Le disuguaglianze non sono neppure una costante temporale, perché vi sono fasi storiche in cui esse aumentano ed altre in cui diminuiscono; né sono una costante spaziale, perché vi sono paesi in cui l’indice di Gini – che misura il divario tra ricchi e poveri – è più alto che in altri. 
  
Ad esempio, in Italia, il coefficiente di Gini è pari 0,36 mentre quello dei paesi scandinavi è all’incirca 0,24 e quello dell’Argentina è 0,51. Il nostro paese, pur destinando alla spesa sociale – la spesa per il welfare globalmente considerata – una percentuale del proprio PIL in linea con quella scandinava registra un livello di disuguaglianza sensibilmente maggiore. D’altro canto, pur spendendo tanto, in rapporto al PIL, per il welfare l’Italia ha un indice di Gini che è solamente di poco inferiore a quello degli USA (0,40). Quanto a dire che il nostro welfare non protegge i più vulnerabili, né facilita la mobilità sociale dei ceti poveri.
Bel paradosso davvero, perché ciò significa che le disuguaglianze non sono il prodotto della miseria di un paese o della sua arretratezza; ma della presenza di istituzioni economiche che prelevano il sovrappiù generato dal sistema incanalandolo verso i percettori di rendita. Ecco perché è inutile invocare più crescita per diminuire le disuguaglianze. Se non si mutano le regole del gioco economico, una maggiore crescita implica di certo un aumento dell’indice di Gini – un punto questo che già Tocqueville aveva anticipato nel suo celebre Democrazia in America del 1835, quando scriveva che “l’uguaglianza si incontra soltanto ai due limiti estremi della civiltà”.
   Il sopra citato saggio di Milanovic ci informa anche che l’aumento delle disuguaglianze è fenomeno che non riguarda solamente quel che avviene nei singoli paesi. L’aumento della disuguaglianza globale è efficacemente reso dal seguente confronto: nel 1820 la distanza che separava i paesi ricchi da quelli
poveri era di 3 a 1; oggi è di 100 ad 1. Ovvero, i più indigenti, poniamo, degli americani usufruiscono di un livello di benessere più elevato dei più abbienti dei due terzi della popolazione mondiale. Anziché restringere questo divario, la globalizzazione, da un lato, e la terza rivoluzione industriale (quella delle nuove tecnologie) dall’altro, sono i due principali fattori causali del fenomeno in questione; perché ad essi si deve sia il mutamento radicale del modo di produzione sia la destrutturazione dell’organizzazione sociale delle nostre società.
   Si pone la domanda: se la diseguaglianza aumenta non a causa della mancanza di risorse, né per la deficienza di know-how tecnologico, né a causa di particolari avversità che colpiscono certe categorie di persone, a cosa essa ultimamente si deve e soprattutto perché essa non suscita moti di ripulsa nei
confronti di tale stato di cose? La risposta che considero più plausibile è che ciò è dovuto alla continua credenza nelle nostre società nei dogmi dell’ingiustizia.
(Pareto vedeva nella diseguaglianza addirittura una sorta di legge ferrea cui il genere umano mai si sarebbe potuto sottrarre). Due sono basicamente i dogmi in questione. Il primo afferma che la società nel suo insieme viene avvantaggiata se ciascun individuo agisce per perseguire il proprio beneficio personale. Il che è doppiamente falso. In primo luogo, perché l’argomento smithiano della mano invisibile postula, per la sua validità, che i mercati siano vicini all’ideale della libera concorrenza, in cui non vi sono né monopoli né oligopoli, né asimmetrie informative. Ma tutti sanno che le condizioni per avere mercati di concorrenza perfetta mai sono soddisfatte nella realtà. E’ per questo che la famosa
economista di Cambridge, Joan Robinson scrisse che la “mano invisibile potrebbe funzionare per strangolamento”. (“The pure theory of international trade”, RES, 1946, p.99).In secondo luogo, perché le persone hanno talenti e abilità diverse. Ne consegue che se le regole del gioco vengono forgiate in modo da esaltare, poniamo, i comportamenti opportunistici, disonesti, immorali ecc., accadrà che
quei soggetti la cui costituzione disposizionale è caratterizzata da tali tendenze finiranno con lo schiacciare gli altri. Del pari come dirò più avanti, l’avidità intesa come passione dell’avere è un tratto caratteristico della natura umana. Se allora nei luoghi di lavoro si introducono forti sistemi di incentivi – si badi, non sistemi premianti – è evidente che i più avidi tenderanno a sottomettere i meno avidi. In
questo senso, si può affermare che non esistono poveri per natura, ma per condizioni sociali; per il modo cioè in cui vengono disegnate le istituzioni economiche.
   L’altro dogma dell’ingiustizia cui sopra alludevo è la credenza che l’elitarismo vada incoraggiato perché efficiente e ciò nel senso che il benessere dei più cresce maggiormente con la promozione delle abilità dei pochi. E dunque risorse, attenzioni, incentivi, premi devono andare ai più dotati, perché all’impegno di costoro che si deve il progresso della società. Ne deriva che l’esclusione dall’attività economica – nella forma, ad esempio, di precariato e/o disoccupazione – dei meno dotati è qualcosa non solamente di normale, ma anche di necessario se si vuole accrescere il tasso al quale aumenta il PIL.
   Oggi sappiamo che l’aumento delle diseguaglianze è parte non secondaria nella generazione della crisi, come la vicenda dei muti subprime ha chiaramente indicato.

martedì 3 settembre 2013

Una crisi di senso, dunque di direzione - Stefano Zamagni 1di6

Date di pubblicazione:

Martedì 3 Settembre: Prima parte
Venerdì 6 Settembre: Seconda parte
Lunedì  9 Settembre: Terza parte
Giovedì 12 Settembre: Quarta parte
Domenica 15 Settembre: Quinta parte
Martedì 17 Settembre: Sesta e ultima parte



Una crisi di senso, dunque di direzione - Prima parte




   Due sono i tipi di crisi sistemiche che è possibile identificare nella storia delle nostre società: dialettica l’una, entropica l’altra. (Delle crisi congiunturali per certi aspetti funzionali ad una economia di mercato non mette conto dire tanto sono numerose e ben note). Dialettica è la crisi che nasce da un grave conflitto di interessi che prende corpo entro una determinata società la quale non riesce, per una ragione o l’altra, a comporre. Una tale crisi contiene, al proprio interno, i germi o le forze del proprio superamento. Esempi storici e famosi di crisi dialettica sono quelli della rivoluzione americana, della rivoluzione francese, della rivoluzione d’ottobre in Russia nel 1917. Entropica, invece, è la crisi che origina da un serio conflitto di valori oppure da un conflitto d’identità. Essa tende a far collassare il sistema, per implosione, senza che dall’interno della crisi stessa possano derivare indicazioni circa la via d’uscita. Questo tipo di crisi si sviluppa ogniqualvolta la società perde il senso – cioè, letteralmente, la direzione – del proprio incedere.
Anche di tale tipo di crisi la storia ci offre esempi notevoli: la caduta dell’impero romano; la transizione dal feudalesimo alla modernità; il crollo del muro di Berlino e il conseguente crollo dell’impero sovietico e altri ancora.

    Perchè è importante tale distinzione? Perché sono diverse le strategie di uscita dai due tipi di crisi. Non si esce da una crisi entropica con meri aggiustamenti di natura tecnica o con provvedimenti solo legislativi e regolamentari – pure necessari – ma affrontando di petto la questione del senso.
Ecco perché sono indispensabili a tale scopo minoranze profetiche che sappiano indicare alla società la nuova direzione verso cui muovere mediante un supplemento di pensiero e soprattutto la testimonianza delle opere. Così è stato, ad esempio, quando Benedetto, lanciando il suo celebre “ora et labora”, inaugurò la nuova era, quella delle cattedrali. (Mai si dirà abbastanza della portata rivoluzionaria, sul piano sia sociale sia economico, dell’impiantoconcettuale del carisma benedettino. Il lavoro, da secoli considerato attività tipica dello schiavo, diviene piuttosto con Benedetto la via maestra per la libertà:
è per diventare liberi che occorre lavorare. Non solo, ma il lavoro viene sollevato al livello della preghiera. Come dirà poi Francesco, guai a separare laborantes e contemplantes; in ciascuna persona preghiera e lavoro devono sempre procedere in parallelo).

    Ebbene, la grande crisi sistemica iniziata nell’estate 2007 negli USA e tuttora in atto è di tipo basicamente entropico. E dunque non è corretto assimilare – se non per gli aspetti meramente quantitativi – la presente crisi a quella del 1929 che fu, piuttosto, di natura dialettica. Quest’ultima, infatti, fu dovuta sia ad errori umani commessi soprattutto dalle autorità di controllo delle transazioni economiche e finanziarie, sia ad un preciso deficit di conoscenza circa i modi di funzionamento dell’economia capitalistica e di risoluzione dei suoi conflitti. Tanto che ci volle il “genio” di J.M. Keynes per provvedere alla bisogna. Si pensi al ruolo svolto dal pensiero keynesiano nella articolazione del New Deal di Roosevelt. Nella crisi attuale è certamente vero che ci sono stati errori umani sia da parte degli operatori finanziari sia da parte delle autorità di controllo – errori anche gravi come ho mostrato in Zamagni (“La lezione e il monito di una crisi annunciata”, Sistemi intelligenti, 2009) – ma questi sono stati la conseguenza non tanto di un deficit conoscitivo, quanto piuttosto della perdita di senso che ha investito le società dell’occidente avanzato a far tempo dall’inizio di quell’evento di portata epocale che è la globalizzazione.

    Sorge spontanea la domanda: dove rinvenire le cause profonde che hanno generato l’attuale crisi di senso? Ritengo che queste siano attribuibili ad una triplice separazione consumatasi nell’ultimo quarto di secolo. E precisamente, la separazione tra la sfera dell’economico e la sfera del sociale; il lavoro separato dalla creazione della ricchezza; il mercato separato dalla democrazia. Vedo di chiarire, seppure in breve, cominciando dalla prima separazione.


Tratto da: aiccon