giovedì 12 settembre 2013

Una crisi di senso, dunque di direzione - Stefano Zamagni 4di6

Una crisi di senso, dunque di direzione - Quarta parte


      Infine, di una terza separazione al fondo della crisi attuale mette conto dire.
Si tratta di questo. Da sempre la teoria economica – specialmente quella della scuola di pensiero neo-austriaca – sostiene che il successo e il progresso di una società dipendono crucialmente dalla sua capacità di mobilizzare e gestire la conoscenza che esiste, dispersa, tra tutti coloro che ne fanno parte. Infatti, il merito principale del mercato, inteso come istituzione socio-economica, è proprio quello di fornire una soluzione ottimale al problema della conoscenza. Come già F. von Hayek ebbe a chiarire nel suo celebre (e celebrato) saggio del 1937, al fine di incanalare in modo efficace la conoscenza locale, quella cioè di cui sono portatori i cittadini di una società, è necessario un meccanismo decentralizzato di coordinamento, e il sistema dei prezzi di cui il mercato basicamente consta è esattamente quel che serve alla bisogna. Questo modo di vedere le cose, assai comune tra gli economisti, tende tuttavia ad oscurare un elemento di centrale rilevanza.
      Invero, il funzionamento del meccanismo dei prezzi, come strumento di coordinamento, presuppone che i soggetti economici condividano e perciò comprendano la “lingua” del mercato. Come illustra C. Tognato (2006), pedoni e automobilisti si fermano di fronte al semaforo che segna il rosso perché condividono il medesimo significato della luce rossa. Se quest’ultima evocasse, per alcuni, l’adesione ad una particolare posizione politica e, per altri, un segnale di pericolo è evidente che nessun coordinamento sarebbe possibile, con le conseguenze che è facile immaginare. L’esempio suggerisce che non uno, ma due, sono i tipi di conoscenza di cui il mercato ha bisogno per assolvere al compito principale di cui sopra si è detto. Il primo tipo è depositato in ciascun individuo ed è quello che – come bene chiarito dallo stesso F. von Hayek – può essere gestito dai normali meccanismi del mercato. Il secondo tipo di conoscenza, invece, è quella di tipo istituzionale che circola tra i vari gruppi di cui consta la società ed ha a che vedere con la lingua comune che consente ad una pluralità di individui di condividere i significati delle categorie di discorso che vengono utilizzate e di intendersi reciprocamente quando vengono in contatto.
      Tognato (2006) ha bene chiarito che, in qualsiasi società coesistono molti linguaggi diversi, e il linguaggio del mercato è solamente uno di questi. Se questo fosse l’unico, non ci sarebbero problemi: per mobilizzare in modo efficiente la conoscenza locale di tipo individuale basterebbero gli usuali strumenti di mercato. Ma così non è, per la semplice ragione che le società contemporanee sono contesti multi-culturali nei quali la conoscenza di tipo individuale deve viaggiare attraverso confini linguistici ed è questo che pone difficoltà formidabili.
Il pensiero neo-austriaco ha potuto prescindere da tale difficoltà assumendo, implicitamente, che il problema della conoscenza di tipo istituzionale di fatto non esistesse, ad esempio perché tutti i membri della società condividono il medesimo sistema di valori e accettano gli stessi principi di organizzazione sociale. Ma quando così non è, come la realtà ci obbliga a prendere atto, si ha che per governare una società “multi-linguistica” è necessaria un’altra istituzione, diversa dal mercato, che faccia emergere quella lingua di contatto capace di far dialogare i membri appartenenti a diverse comunità linguistiche. Ebbene, questa istituzione è la democrazia deliberativa. Questo ci aiuta a comprendere perchè il problema della gestione della conoscenza nelle nostre società di oggi, e quindi in definitiva il problema dello sviluppo, postula che due istituzioni – la democrazia e il mercato – siano poste nella condizione di operare congiuntamente, fianco a fianco. Invece, la separazione tra mercato e democrazia che si è andata consumando nel corso dell’ultimo quarto di secolo sull’onda dell’esaltazione di un certo relativismo culturale e di una esasperata mentalità individualistica ha fatto credere – anche a studiosi avvertiti – che fosse possibile espandere l’area del mercato senza preoccuparsi di fare i conti con l’intensificazione della democrazia.
      Due le principali implicazioni che ne sono derivate. Primo, l’idea perniciosa secondo cui il mercato sarebbe una zona moralmente neutra che non avrebbe bisogno di sottoporsi ad alcun giudizio etico perché già conterrebbe nel proprio nucleo duro quei principi morali che sono sufficienti alla sua legittimazione sociale.
L’argomento che sorregge tale tesi è il seguente. Il mercato è il luogo in cui la coordinazione delle decisioni economiche avviene mediante la cooperazione volontaria. E ciò per la fondamentale ragione che “entrambe le parti di una transazione economica ne beneficiano, a patto che la transazione sia bilateralmente volontaria e informata”. (M. Friedman, Capitalism and Freedom, 1962, p.13). Se ne trae che quando due (o più) parti, in assenza di inganno e di coercizione, e pertanto in grado di scegliere liberamente, danno vita ad una transazione economica, esse acconsentono pure alle conseguenze che da essa derivano. E’ in ciò la giustificazione etica, in economia, del consequenzialismo.
L’idea del consenso fondata sulla libertà di scelta è bene espressa da R. Posner quando scrive: “Sono dell’avviso che una persona che compra un biglietto della lotteria e poi perde, ha acconsentito alla perdita nella misura in cui non vi è traccia di frode o di costrizione” (The Economics of Justice, 1981, p.94). Dunque, al di fuori di questi ultimi casi, scegliere liberamente è dare il proprio consenso e acconsentire significa legittimare. Come osserva F. Peter, (“Choice, consent and the legitimacy of market transactions”, Economics and Philosophy, 2004), il mercato non ha alcun bisogno di chiedere certificati di legittimazione etica, dal momento che esso è capace di legittimarsi da solo. Non così lo Stato, invece, il quale per poter far uso della coercizione – che è lo strumento principale con il quale esso persegue i suoi obiettivi – ha bisogno dell’approvazione dei cittadini elettori, dai quali soli può ottenere la legittimazione di cui ha necessità. Cosa non regge in tale ragionamento?
      Basicamente, che non è quasi mai vero che la libertà di scelta postula il consenso. Così sarebbe se alla predisposizione del menu di scelta partecipasse il soggetto stesso della scelta – il che non è mai nella pratica. Il genitore che offre volontariamente – cioè senza costrizione alcuna – in vendita un suo organo per allentare il vincolo della miseria della sua famiglia, di certo non acconsente alle conseguenze che derivano dal suo gesto. La scelta libera di un’opzione ha forza legittimante solamente se anche l’insieme delle alternative in gioco è parte del problema di scelta del soggetto. Se tale insieme è dato esogenamente questa condizione non è affatto soddisfatta.
      E’ noto che la centralità della categoria del consenso è tipica della tradizione di pensiero contrattualista iniziata da Hobbes. L’idea è che se ho sottoscritto un contratto con te per realizzare qualcosa che ora non voglio più realizzare, tu puoi sempre rispondermi: “ma tu fosti allora d’accordo, ora sei obbligato a rispettare i termini contrattuali”. Come a dire che il consenso fonda l’obbligazione. Tra coloro che si riconoscono nella linea di pensiero contrattualista, nessuno meglio di J. Rawls è stato capace di mostrare che affinché dal consenso possa nascere un’obbligazione è necessario che i vincoli nel rispetto dei quali le parti del contratto prendono le loro decisioni possono essere da tutti condivisi.
Solamente se si riesce a mostrare che i partecipanti al contratto sociale hanno acconsentito (o avrebbero avuto motivo di acconsentire) alle regole del gioco che li vede coinvolti, allora si può legittimamente sostenere che l’accordo raggiunto per via di consenso sia obbligante.
      Ora, non ci vuole tanto per comprendere come nell’attuale crisi questa condizione non si sia realizzata affatto. Invero, la libertà di scelta descrive l’assenza di costrizione da parte di altri. Essa ha a che vedere con la possibilità di scelta, con l’esistenza cioè di un dominio o spazio entro cui il soggetto può esercitare la sua signoria. Ma ciò nulla dice ancora della capacità di scelta, vale a dire dell’esercizio effettivo della scelta. Non basta avere un’ampiezza di scelte se poi non si sa scegliere oppure non si ha la potenzialità di convertire i mezzi in capacità di promuovere i propri scopi. E’ questa la grande lezione di A. Sen (Lo sviluppo è libertà, Milano, 2000) quando ci ricorda – contra von Hayek, per esempio – che l’uso della libertà è in qualche modo essenziale alla definizione della stessa. Di una persona che è libera di realizzare il proprio piano d’azione, ma non ha la capacità di farlo, non si può certo dire che essa acconsenta alle conseguenze delle sue azioni. Se dunque il mercato non è capace di trovare in sé le ragioni capaci di fondarne la giustificazione, il ricorso all’etica diviene indispensabile.
      Come ci ricorda la tesi della doppia ermeneutica, le teorie economiche non sono mai meri strumenti neutrali di conoscenza e di spiegazione del comportamento umano, dal momento che esse inducono sempre, in qualche modo, mutamenti del comportamento. Non trasmettono, cioè, solo risultati di esperimenti o di simulazioni; sono anche, tanto o poco, strumenti di cambiamento del carattere degli uomini. E’ a J.L. Austin che si deve il concetto di performatività di una teoria economica per indicare l’influenza trasformativa della teoria sulla realtà. Ecco perché l’economista non può fare a meno di intrattenere uno speciale rapporto di buon vicinato con l’etica – sempre che voglia continuare a riconoscere alla propria disciplina la capacità sia di far presa sulla realtà sia di concorrere a modificarla. Se invece la preoccupazione dell’economista è semplicemente quella di costruire una macchina logica che consenta di misurare gli effetti di ogni data decisione economica su una data collettività, allora per uno scopo del genere il connubio tra economia e scienze fisico-naturali basta, e avanza. E tale considerazione basterebbe a sconfiggere da sola ogni pretesa di autoreferenzialità.
      V’è una seconda implicazione che è opportuno porre in risalto. Se la democrazia, che è un bene fragile, va soggetta a lento degrado, può accadere che il mercato sia impedito di raccogliere e gestire in modo efficiente la conoscenza, e quindi può accadere che la società cessi di progredire, senza che ciò avvenga per un qualche difetto dei meccanismi del mercato, bensì per un deficit di democrazia. Ebbene, la crisi economico-finanziaria in corso è la migliore e più cocente conferma empirica di tale proposizione. Si pensi, per fare un solo esempio, alla prevalenza, nelle sfere sia economica sia politica, del corto termismo (short termism), dell’idea cioè secondo cui l’orizzonte temporale delle decisioni ha da essere il breve periodo. La democrazia, invece, ha necessariamente di mira il lungo periodo. Se le preposizioni del mercato sono senza – contro – sopra (senza gli altri; contro gli altri; sopra gli altri), quelle della democrazia sono con-per-in (con gli altri; per gli altri; negli altri). In definitiva, abbiamo bisogno di ricongiungere mercato e democrazia per scongiurare il duplice pericolo dell’individualismo e dello statalismo centralistico. Si ha individualismo quando ogni membro della società vuol essere il tutto; si ha centralismo quando a voler essere il tutto è un singolo componente. Nell’un caso si esalta a tal punto la diversità da far morire l’unità del consorzio umano; nell’altro caso, per affermare l’uniformità si sacrifica la diversità.

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