domenica 15 settembre 2013

Una crisi di senso, dunque di direzione - Stefano Zamagni 5di6

Una crisi di senso, dunque di direzione - Quinta parte



    Parecchi e di diversa natura sono i moniti che possiamo trarre da questa crisi entropica. In questa sede, mi limito, per ragioni di spazio, a commentarne due. Il primo ha a che vedere con quello che possiamo chiamare il “fallimento” della disciplina economica. Si tratta un fallimento che ha iniziato a manifestarsi un quarto di secolo fa, e che ha il suo fondamento nell’affermazione di un pensiero unico – il c.d. mainstream economico – che ha prodotto una schiera di modelli di equilibrio - raffinatissimi sotto il profilo logico-matematico – che escludono a priori tutti quei fattori, tipici del mondo reale, da cui dipendono i risultati che è dato osservare. Si pensi all’eterogeneità dei sistemi motivazionali degli agenti economici; alla pluralità delle regole decisionali seguite dai policy-makers, cioè dai decisori politici; alla variabilità dei contesti sociali tra paese e paese; alla diversità delle matrici culturali che contraddistinguono i vari Stati; e così via.
      A partire dalla scelta (non tecnica, ma di valore) di unicità di comportamento che parte di tutti gli agenti – la celebre ipotesi dell’homo oeconomicus, di irrilevanza degli assetti giuridico-istituzionali, di irrilevanza dei principi etici nella sfera delle relazioni economiche (bene resa dall’aforisma “gli affari sono affari”), la teoria economica dominante ha prodotto studi e ricerche il cui esito finale era quello di rassicurare, sia le autorità pubbliche sia la gente comune, che praticaemente mai una crisi finanziaria si sarebbe potuta verificare.
Se si sfogliano i libri di testo di macroeconomia e di finanza, in uso presso la quasi totalità delle Università dove studiano coloro che poi diverranno manager o uomini d’affari, questo è il messaggio che viene veicolato. E’ così accaduto che nell’ora del bisogno, nel momento in cui la crisi stava raggiungendo il suo apice, coloro che sarebbero dovuti intervenire prontamente per correggere o per porre rimedio si sono trovati a navigare nel buio, senza guida alcuna di carattere scientifico. E’ in questo preciso senso che si può parlare di crisi profonda della disciplina economica.
      Giova precisare che quanto denunciato costituisce una novità di questo nostro tempo. Infatti, se c’è un tema che, sin dagli albori delle disciplina, ha sempre intrigato la mente degli economisti, quale che fosse la specifica scuola di pensiero di appartenenza, è proprio quella delle crisi economiche e finanziarie, a far tempo da W. Petty (1693), passando per W. Bagehot (1873), S.W. Jevons (1871), fino a C. Kindleberger (1983) e soprattutto H. Minsky (1986). Invece, la notizia buona diffusa a piene mani dal mainstream è stata che non mette conto occuparsi della crisi perché, sotto le ipotesi di cui sopra, queste risultano altamente improbabili. Un esempio rivelatore di questa opinione comune lo troviamo nell’accurato studio sulle implicazioni della gestione del rischio dei CDO – una ormai ben nota categoria di derivati – di Krahnen e Wilde, i quali menzionano bensì la possibilità di un aumento eccessivo del rischio sistemico, ma subito concludono che il sistema bancario non ha da preoccuparsi perché comunque è compito dei governi nazionali farsi carico dell’assicurazione contro i probabili default e insolvenze. (J.P. Krahnen, C. Wilde, “Risk transfer with CDO and systemic risk banking”, Center for Financial Studies, Frankfurt, WP 4, 2006). Un vero professionista mai potrebbe scrivere cose del genere.
      Sorge la domanda: come darsi conto di tale dimenticanza; come spiegare questa ossessiva focalizzazione sulle situazioni di equilibrio, quando la realtà e la storia economica mostrano che è il disequilibrio la cifra delle economia di mercato? Per dare risposte, è indispensabile chiarire che a differenza di quanto accade nelle scienze naturali, la scienza economica è sotto l’influenza della tesi della doppia ermeneutica, secondo cui le teorie economiche sul comportamento umano incidono, tanto o poco, presto o tardi, sul comportamento stesso dell’uomo. Quanto a dire che la teorizzazione in ambito economico mai lascia immutato il suo campo di studio, dal momento che essa non solo plasma le mappe cognitive dell’agente economico, ma gli indica anche la via che deve essere seguita se si vuole conseguire in modo razionale lo scopo. Ora, se quest’ultimo è la massimizzazione del profitto (o altra specificazione della funzione obiettivo) e se, come è ovvio, lo scopo di un’azione prescrive quali debbano essere i mezzi richiesti per realizzarlo, il circolo ermeneutico è presto chiuso. E’ per questa fondamentale ragione che l’economista non può trincerarsi dietro una presunta neutralità assiologica nel momento in cui produce modelli e teorie - soprattutto quando è consapevole del fatto che i prodotti del suo lavoro scientifico generano un certo modo di pensare e vengono presi come base di riferimento dal decisore politico. 
      L’argomento così frequentemente utilizzato nel dibattito pubblico secondo cui l’analisi economica, come analisi del comportamento degli operatori economici, ha da essere amorale, mentre la pratica e l’insegnamento dell’economia devono essere influenzati da opzioni morali, sarebbe valido se non fosse vera la tesi della doppia ermeneutica – che invece è verissima. Ne deriva che il modo in cui l’economista produce conoscenza scientifica e il modo in cui i risultati della stessa vengono presentati trasmettono, in forme sottili e spesso subdole, ben precisi giudizi di valore che finiscono con il forgiare la forma mentis di coloro ai quali quei risultati sono rivolti. Un recente studio sperimentale svolto all’Università di Cornell (USA) dimostra che non solamente persone egoiste (cioè autointeressate e opportuniste) sono attratte dagli studi economici, ma anche che, dopo aver seguito i corsi di economia, gli studenti diventano maggiormente egoisti. E’ forse per questo che un grande economista liberale come Luigi Einaudi, già nel 1942, scriveva: “Dopo aver lungamente creduto anch’io che ufficio dell’economista non fosse di porre i fini al legislatore, bensì quello di ricordare come… qualunque sia il fine perseguito dal politico, i mezzi adoperati debbono essere sufficienti e congrui, oggi dubito e forse finirò col concludere che l’economista non possa distinguere il suo ufficio di critico dei mezzi da quello di dichiaratore di fini; che lo studio dei fini dei mezzi, al quale gli economisti si restringono”. (Presentazione di Introduzione alla politica economica di C. Bresciani Turroni, Einaudi, Torino, 1942, pp.15-16; corsivo aggiunto).
      Nel caso specifico di cui ci stiamo occupando, dove si è maggiormente manifestata questa assenza di responsabilità da parte degli economisti, una assenza che è consistita nel non aver fatto tesoro, quanto meno, del principio di precauzione nel suggerire determinate linee di azione? In primo luogo, nell’aver fatto credere che quello di efficienza fosse un criterio oggettivo (cioè neutrale rispetto ai giudizi di valore) di scelta tra opzioni alternative. E’ vero invece che si può utilizzare il criterio di efficienza, e in forza di questo prendere decisioni, solo dopo che si è fissato il fine che si intende perseguire. Quanto a dire che l’efficienza è strumento per un fine e non un fine in sé. Affermare pertanto che i comportamenti di banchieri e trader – che in massa si sono gettati nel gioco della speculazione finanziaria nel corso dell’ultimo ventennio – devono considerarsi legittimati dalla circostanza che costoro seguivano un canone di razionalità volto ad assicurare un’efficiente allocazione delle risorse finanziarie, è a dir poco una tautologia, indice di plateale sprovvedutezza metodologica.
      C’è un secondo ambito dove l’influenza del mainstream economico è stata decisiva nel contribuire a determinare il disastro finanziario. Si tratta del retroterra teorico che ha avvalorato il principio della massimizzazione dello shareholder value. In breve, si tratta di questo. Tre sono le concezioni con cui la teoria microeconomica guarda all’impresa: l’impresa come associazione; l’impresa come coalizione; l’impresa come merce. La prima vede l’impresa come comunità, cui prendono parte diversi portatori di interessi (lavoratori; investitori; clienti; fornitori; territorio), che cooperano per conseguire un comune obiettivo, e che è organizzata per durare nel tempo. E’ questa l’idea - si badi - da cui nasce la “corporation” americana, la quale in origine è un ente non profit la cui governance viene mutuata da quella dei monasteri benedettini e cistercensi. Come da secoli insegna la scuola aziendalistica italiana, l’impresa è un bene di per sé e, poiché tale, non può essere lasciata ai capricci del mercato, e di quello finanziario in special modo. La concezione dell’impresa come coalizione, invece, si sviluppa a partire dal pioneristico contributo del premio Nobel Ronald Coase, che nel celebre saggio del 1937 “Perché esiste l’impresa” difende la tesi secondo cui l’impresa nasce per risparmiare sui costi di transazione, cioè sui costi d’uso del mercato. Ogni negoziazione di mercato, infatti, implica specifici costi e dunque un’impresa ha ragione di esistere fin tanto che i costi di transazione superano i costi di esercizio della proprietà. Quanto a dire che, se per una ragione o l’altra, si riuscisse ad abbassare considerevolmente i costi di transazione, non vi sarebbe bisogno alcuno dell’impresa.
      Come giustificare in positivo, sotto il profilo teorico-economico, la tesi del primato dell’azionista su tutti gli altri stakeholder? La risposta arriva nel 1976 quando M. Jensen e W. Meckling pubblicano il loro  importante contributo dal quale prende avvio la teoria dell’agenzia: gli azionisti, in quanto proprietari dell’impresa, sono il principale il cui fine è quello di ottenere i più elevati profitti possibili. Per conseguire ciò, essi si affidano all’opera di un agente – amministratori e/o dirigenti – il cui obiettivo è però quello di massimizzare la propria funzione di utilità.
      Certo, il problema del disallineamento tra la funzione obiettivo del principale e quella dell’agente non si porrebbe se il contratto che il primo stipula con il secondo fosse completo. (E’ tale un contratto nel quale sono puntualmente specificati tutti gli adempimnenti connessi alle obbligazioni assunte e nel quale sono indicate le conseguenze, con relative sanzioni, che discendono da eventuali defezioni o violazioni degli accordi pattuiti). Ma asimmetrie informative, da un lato, e previsione imperfetta, dall’altro, sono i due principali fattori causali responsabili dell’incompletezza contrattuale. Di qui la ricerca, da parte del principale, di schemi di incentivo che valgano ad indurre l’agente a cercare la massimizzazione del valore di lungo periodo dell’impresa, così come questo si riflette nella quotazione di borsa del titolo. I vari piani di stock options a favore dei manager sono solo uno degli strumenti - forse il più noto e il più usato – per realizzare l’allineamento delle funzioni obiettivo di principale e agente, attraverso il contenimento di comportamenti opportunistici da parte di quest’ultimo. Come B. Frey e M. Osterloh hanno documentato con precisione, a partire dal 1980 gran parte delle remunerazioni attribuite al top management ha preso la forma di stock options. La conseguenza è stata devastante: nel 1970 un alto dirigente americano guadagnava 25 volte di più di un lavoratore medio dell’industria. Nel 1996, il medesimo rapporto era passato a 210 e nel 2000 a 500. (Oggi, esso è intorno a 700). Eppure, la performance delle imprese guidate da questi alti dirigenti non è aumentata nella stessa misura. (“Yes, managers should be paid like burocrats”, CESifo, Dic. 2004). E’ la presa d’atto di tale profonda discrasia ad aver “costretto” lo stesso Jensen ad ammettere di fronte all’esagerato corto termismo e all’aumento del numero degli scandali societari che “le stock options si sono dimostrate eroina (sic!) manageriale”. (“On CSR”, The Economist, 16, Nov. 2002, p.66).
      Grande – e forse non previsto – è stato il successo riscosso da questa linea di pensiero. E’ agevole comprenderne le ragioni. Primo, perché con la semplice metrica del prezzo dell’azione si riesce a sintetizzare tutte le variabili che dicono della performance aziendale (fatturato; numero di occupati; struttura del capitale; acquisizioni societarie; ecc.). E non v’è chi non veda come un tale vantaggio informativo rappresenti una ragione più che sufficiente per esaltare la retorica del primato dell’azionista. Secondo, perché la teoria dello shareholder value consente di individuare in fretta il colpevole degli insuccessi e, soprattutto, dei rovesci aziendali. Quando ciò accade, la colpa è dell’agente – cioè del manager – che si è comportato in maniera opportunistica tradendo la fiducia del suo principale. Come ha bene spiegato il celebre antropologo Renè Girard, la ricerca del capro espiatorio ha sempre un grande effetto liberatorio: non è il sistema – in questo caso la visione di impresa come merce – che va cambiato, ma la coscienza morale dei manager. Come si vedrà nel prossimo capitolo, è questa una posizione insostenibile sotto il profilo etico.
      Alla fine degli anni ’90, il trionfo della tesi dello shareholder value era ormai cosa fatta: neppure la si poteva porre in discussione. Tanto che nel 2001, R. Kreakman e H. Hansmann sul Georgetown Law Journal pubblicano un articolo dal titolo rivelatore, “The end of history of corporate law”, nel quale si legge: “Le elites accademiche, aziendali e politiche hanno ormai raggiunto il consenso sul principio che il controllo ultimo sull’impresa deve spettare alla classe degli shareholder. I manager hanno il compito, obbligante, di guidare l’impresa nell’interesse dei suoi azionisti, dal momento che le altre classi di stakeholder (creditori, occupati, fornitori, clienti) vedono i loro interessi protetti maggiormente da standard contrattuali e regolamentari che non dalla loro partecipazione al governo dell’impresa…. Il valore di mercato delle azioni è la principale misura degli interessi degli azionisti”. Dopo gli eventi che hanno accompagnato la grande crisi del 2007-2008, queste parole suonano, a dir poco, ironiche. Scambiando una fine d’atto con la fine della rappresentazione, gli autori del brano confermano quanto resiliente sia la forza dell’ideologia.
      Perché il pensiero unico dello shareholder value non mantiene, nella pratica, quel che promette in teoria, tanto che perfino i suoi stessi sostenitori hanno, da qualche tempo, cominciato a prenderne le distanze? Perché le raccomandazioni per il manager che discendono dalla teoria di cui si sta parlando (riduzione della forza lavoro; vendita degli asset non direttamente necessari al processo produttivo; riduzione dei margini di sicurezza; diminuzione dell’assistenza ai clienti; riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo; lobbismo con pratiche corruttive nei confronti dei regolatori; ecc.) si rivelano, nella realtà, fallimenti? Perché, infine, la distanza tra interessi degli azionisti e interessi degli altri stakeholder non è così ampia come si è cercato finora di far credere e perché nessuna evidenza empirica dimostra che le imprese gestite secondo la logica del valore per l’azionista esibiscono una performance di lungo periodo migliore di quella di imprese che attuano la RSI? Rispondere a domande del genere significa cercare di comprendere quali apòrie si nascondono nelle pieghe dello shareholder model (noto anche come finance model).
      Infatti, di chi è agente il manager? Della classe degli azionisti oppure dell’impresa stessa? La dottrina giuridica (e la stessa giurisprudenza) non hanno dubbi al riguardo: poiché l’impresa è una persona giuridica, è questa il principale della relazione di agenzia. Eloquente al riguardo il testo dell’art.2086 del codice civile italiano: “L’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”. Va da sé che si può essere “capi” solamente di un ente che esiste – l’impresa, appunto, come persona giuridica.
Diversa, invece, la risposta che danno i teorici dell’agenzia. Per costoro, l’impresa è una mera finzione giuridica. Poiché l’impresa non esiste in quanto tale, il principale non può che essere la classe degli azionisti. Scrivono Jensen e Meckling (1976): “L’impresa privata è semplicemente una forma di finzione legale che serve come rete per intessere relazioni contrattuali ed è inoltre caratterizzata dall’esistenza di pretese residuali sui beni e sugli utili dell’organizzazione, beni che possono in generale essere venduti senza il permesso degli altri contraenti” (p.171).
Sulla medesima linea si muovono Fama e Jensen (“Separation of ownership and control”, Journal of Political Economy, 1980) quando scrivono: “L’impresa è semplicemente l’insieme di contratti che concernono il modo in cui gli input vengono combinati per creare gli output” (p.288). Quel che colpisce di questa scuola di pensiero è che proprio negli USA, già alla fine dell’Ottocento, il Santa Clara Act aveva sancito che all’impresa doveva essere riconosciuto il medesimo status giuridico dei cittadini: gli uni e l’altra godono sia dei diritti sia dei doveri di cittadinanza – come D. Lutz (“Beyond business ethics”, Oikonomia, 2003) ha bene chiarito.
      Quale la conseguenza, rilevante ai fini presenti, di questa discrasia tra la dottrina giuridica e quella economica? Che se si accoglie il punto di vista dei teorici dell’agenzia, allora ha certamente senso chiedere al manager, in quanto agente degli azionisti, di massimizzare lo shareholder value. Ma in tal modo non si può sperare di risolvere il conflitto di interesse che oppone gli azionisti al manager invocando il principio del primato degli azionisti sugli altri stakeholder. (Tale principio – come noto - viene giustificato con la considerazione che, essendo l’azionista il proprietario dell’impresa, egli va soggetto ad un rischio ulteriore rispetto a quello degli altri stakeholder nel caso di rovesci aziandali). La ragione è semplice ed è che per poter chiamare in causa il diritto di proprietà come fondamento del principio della shareholder primacy occorre ammettere, come la dottrina giuridica da sempre sostiene, che il principale della relazione di agenzia è l’impresa e non già l’azionista. Ma allora se il manager ha da essere agente dell’impresa come entità legale indipendente che possiede se stessa, egli ha anche l’obbligo di massimizzare la funzione obiettivo di quest’ultima, la quale include tra i suoi argomenti, sia  l’interesse degli azionisti, sia quello degli altri stakeholder.
In buona sostanza, l’errore della teoria dell’agenzia è nell’accettazione di un assunto che è fattualmente falso, perché l’impresa non è posseduta dall’azionista, il quale è semplicemente il proprietario di un pacchetto azionario che ha acquistato dall’impresa in seguito ad un normale contratto di compravendita. In forza di tale contratto, l’azionista acquisisce limitati poteri sulla gestione dell’impresa, poteri di poco superiori a quelli di un qualsiasi obbligazionista. In realtà, l’impresa è controllata dal consiglio di amministrazione che dispone di tutto il potere discrezionale necessario alla gestione. Il potere degli azionisti è quello di esonerare o denunciare gli amministratori e eventualmente di vendere le proprie azioni in caso di disaccordo radicale. Dunque, è il consiglio di amministrazione, non l’azionista , il principale, del quale il manager è l’agente. Ebbene, secondo quanto sancisce la forma di legge, compito precipuo del Consiglio è quello di bilanciare gli interessi di tutti gli stakeholder dell’impresa. Tanto è vero che in nessuna legislazione, né in alcun sistema di governance societaria sta scritto che l’impresa deve massimizzare il profitto e basta.

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