venerdì 6 settembre 2013

Una crisi di senso, dunque di direzione - Stefano Zamagni 2di6

Una crisi di senso, dunque di direzione - Seconda parte


   Una delle tante eredità non certo positive che la modernità ci ha lasciato è il convincimento in base al quale titolo di accesso al “club dell’economia” è l’essere cercatori di profitto; quanto a dire che non si è propriamente imprenditori se non si cerca di perseguire esclusivamente la massimizzazione del profitto. In caso contrario, ci si deve rassegnare a far parte della sfera del sociale, dove appunto operano le imprese sociali, le cooperative sociali, le fondazioni di vario tipo, ecc. Questa assurda  concettualizzazione – a sua volta figlia dell’errore teorico che porta a confondere l’economia di mercato, che è il genus, con quella sua particolare species che è il sistema capitalistico – ha finito con l’identificare il mercato con il luogo della produzione della ricchezza (un luogo il cui principio regolativo è l’efficienza) e a pensare il sociale come il luogo della redistribuzione dove la solidarietà e/o la  compassione (pubblica o privata che sia) sono i suoi canoni fondamentali. Si sono viste e stiamo vedendo le conseguenze di tale separazione. Come il celebre storico-economico Angus Madison ha mostrato, negli ultimi trent’anni gli indicatori della diseguaglianza sociale, tra stati e all’interno del medesimo stato, hanno registrato aumenti semplicemente scandalosi, anche in quei paesi dove il welfare state ha giocato un ruolo importante in termini di risorse amministrate. Eppure, schiere di economisti e di filosofi della politica hanno creduto per lungo tempo che la proposta Kantiana: “facciamo la torta più grande e poi ripartiamola con giustizia” fosse la soluzione del problema dell’equità. Non si può non ricordare, a tale proposito, la potenza espressiva dell’aforisma lanciato dal pensiero economico neo-conservatore secondo cui “una marea che sale solleva tutte le barche”, da cui la celebre tesi dell’effetto di sgocciolamento (trickle-down effect): la ricchezza, a mò di pioggia benefica irrora prima o poi tutti, anche i più poveri. E dire che già il grande economista francese Leon Walras, nel 1873, aveva avvertito: “quando porrete mano alla ripartizione della torta non potrete ripartire le ingiustizie commesse per farla più grande”. Parole queste che la crisi attuale ha tristemente inverate.
   Negli ultimi tre anni, hanno visto la luce sei libri importanti di autori autorevoli sul tema della giustizia sociale. Si tratta dei saggi di A. Sen (L’idea di giustizia, Mondadori, 2010); M. Sandel (Giustizia. Il nostro bene comune, Feltrinelli, 2010); R.Dworkin (Giustizia per porcospini, 2011), P. van Parijs (Democrazia giusta: il programma Rawls-Machiavelli, 2012); J. Stiglitz, The price of inequality, Norton, 2012); R. Skidelsky, How much is enough? New York, 2012). Come darsi conto di una tale concentrazione di interesse su un tema tanto antico quanto di estrema attualità? La risposta che do è che è l’aumento preoccupante, anno dopo anno, delle disuguaglianze sociali sia nei paesi dell’Occidente avanzato sia a livello mondiale ad aver riacutizzato l’interesse di filosofi, economisti e scienziati sociali su una duplice questione: perché le disuguaglianze vanno aumentando più velocemente dell’aumento del reddito nazionale e perché così scarsa è l’attenzione dell’opinione pubblica nei confronti di un fenomeno così devastante?
Il recentissimo saggio del noto statistico-economico Branko Milanovic, Chi ha e chi non ha (Il Mulino, Bologna, 2012) ci aiuta a darne la spiegazione.
   Tesi centrale di questo autore è che la disuguaglianza non è un destino e neppure una costante temporale o spaziale. Non è un destino, perché essa ha a che vedere con le regole del gioco economico, cioè con l’assetto istituzionale che un paese decide di darsi. Si pensi ad istituzioni economiche come il mercato del lavoro, il sistema bancario, il modello di welfare, il sistema fiscale etc. A seconda di come queste vengono disegnate, si hanno conseguenze diverse circa il modo in cui reddito e ricchezza si ripartiscono tra coloro che hanno concorso a produrli. Le disuguaglianze non sono neppure una costante temporale, perché vi sono fasi storiche in cui esse aumentano ed altre in cui diminuiscono; né sono una costante spaziale, perché vi sono paesi in cui l’indice di Gini – che misura il divario tra ricchi e poveri – è più alto che in altri. 
  
Ad esempio, in Italia, il coefficiente di Gini è pari 0,36 mentre quello dei paesi scandinavi è all’incirca 0,24 e quello dell’Argentina è 0,51. Il nostro paese, pur destinando alla spesa sociale – la spesa per il welfare globalmente considerata – una percentuale del proprio PIL in linea con quella scandinava registra un livello di disuguaglianza sensibilmente maggiore. D’altro canto, pur spendendo tanto, in rapporto al PIL, per il welfare l’Italia ha un indice di Gini che è solamente di poco inferiore a quello degli USA (0,40). Quanto a dire che il nostro welfare non protegge i più vulnerabili, né facilita la mobilità sociale dei ceti poveri.
Bel paradosso davvero, perché ciò significa che le disuguaglianze non sono il prodotto della miseria di un paese o della sua arretratezza; ma della presenza di istituzioni economiche che prelevano il sovrappiù generato dal sistema incanalandolo verso i percettori di rendita. Ecco perché è inutile invocare più crescita per diminuire le disuguaglianze. Se non si mutano le regole del gioco economico, una maggiore crescita implica di certo un aumento dell’indice di Gini – un punto questo che già Tocqueville aveva anticipato nel suo celebre Democrazia in America del 1835, quando scriveva che “l’uguaglianza si incontra soltanto ai due limiti estremi della civiltà”.
   Il sopra citato saggio di Milanovic ci informa anche che l’aumento delle disuguaglianze è fenomeno che non riguarda solamente quel che avviene nei singoli paesi. L’aumento della disuguaglianza globale è efficacemente reso dal seguente confronto: nel 1820 la distanza che separava i paesi ricchi da quelli
poveri era di 3 a 1; oggi è di 100 ad 1. Ovvero, i più indigenti, poniamo, degli americani usufruiscono di un livello di benessere più elevato dei più abbienti dei due terzi della popolazione mondiale. Anziché restringere questo divario, la globalizzazione, da un lato, e la terza rivoluzione industriale (quella delle nuove tecnologie) dall’altro, sono i due principali fattori causali del fenomeno in questione; perché ad essi si deve sia il mutamento radicale del modo di produzione sia la destrutturazione dell’organizzazione sociale delle nostre società.
   Si pone la domanda: se la diseguaglianza aumenta non a causa della mancanza di risorse, né per la deficienza di know-how tecnologico, né a causa di particolari avversità che colpiscono certe categorie di persone, a cosa essa ultimamente si deve e soprattutto perché essa non suscita moti di ripulsa nei
confronti di tale stato di cose? La risposta che considero più plausibile è che ciò è dovuto alla continua credenza nelle nostre società nei dogmi dell’ingiustizia.
(Pareto vedeva nella diseguaglianza addirittura una sorta di legge ferrea cui il genere umano mai si sarebbe potuto sottrarre). Due sono basicamente i dogmi in questione. Il primo afferma che la società nel suo insieme viene avvantaggiata se ciascun individuo agisce per perseguire il proprio beneficio personale. Il che è doppiamente falso. In primo luogo, perché l’argomento smithiano della mano invisibile postula, per la sua validità, che i mercati siano vicini all’ideale della libera concorrenza, in cui non vi sono né monopoli né oligopoli, né asimmetrie informative. Ma tutti sanno che le condizioni per avere mercati di concorrenza perfetta mai sono soddisfatte nella realtà. E’ per questo che la famosa
economista di Cambridge, Joan Robinson scrisse che la “mano invisibile potrebbe funzionare per strangolamento”. (“The pure theory of international trade”, RES, 1946, p.99).In secondo luogo, perché le persone hanno talenti e abilità diverse. Ne consegue che se le regole del gioco vengono forgiate in modo da esaltare, poniamo, i comportamenti opportunistici, disonesti, immorali ecc., accadrà che
quei soggetti la cui costituzione disposizionale è caratterizzata da tali tendenze finiranno con lo schiacciare gli altri. Del pari come dirò più avanti, l’avidità intesa come passione dell’avere è un tratto caratteristico della natura umana. Se allora nei luoghi di lavoro si introducono forti sistemi di incentivi – si badi, non sistemi premianti – è evidente che i più avidi tenderanno a sottomettere i meno avidi. In
questo senso, si può affermare che non esistono poveri per natura, ma per condizioni sociali; per il modo cioè in cui vengono disegnate le istituzioni economiche.
   L’altro dogma dell’ingiustizia cui sopra alludevo è la credenza che l’elitarismo vada incoraggiato perché efficiente e ciò nel senso che il benessere dei più cresce maggiormente con la promozione delle abilità dei pochi. E dunque risorse, attenzioni, incentivi, premi devono andare ai più dotati, perché all’impegno di costoro che si deve il progresso della società. Ne deriva che l’esclusione dall’attività economica – nella forma, ad esempio, di precariato e/o disoccupazione – dei meno dotati è qualcosa non solamente di normale, ma anche di necessario se si vuole accrescere il tasso al quale aumenta il PIL.
   Oggi sappiamo che l’aumento delle diseguaglianze è parte non secondaria nella generazione della crisi, come la vicenda dei muti subprime ha chiaramente indicato.

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