UN’ ECONOMIA A MISURA DI RIBELLE
DI FEDERICO ZAMBONI
Il libero mercato è il grande alibi del Potere.
Il denaro è il suo strumento fondamentale.
Il lavoro la sua arma di ricatto. La risposta è dare vita a circuiti alternativi e autogestiti
Siamo sotto assedio: assai più che negli scorsi decenni ciascuno di noi, privati cittadini estranei all’establishment economico e politico, è sottoposto a un attacco sistematico che mina i fondamenti stessi della sua vita nella società contemporanea. La si potrebbe definire sinteticamente “la strategia Marchionne”, se non fosse che in questo modo si rischia di scaricare su un singolo soggetto, e su una singola impresa, la responsabilità di un fenomeno assai più ampio e coerente. A rigore, anzi, è persino sbagliato parlare di fenomeno, nel senso di qualcosa che si manifesta nella realtà ma le cui ragioni sono ancora tutte da indagare.
In questo caso, infatti, ci troviamo di fronte alle prime manifestazioni concrete, e inequivocabili, di un disegno che non solo ha dimensioni molto più vaste ma che soprattutto poggia su una logica tanto precisa quanto incrollabile: l’uso del lavoro dipendente come suprema arma di ricatto, e quindi di asservimento, nei confronti della popolazione.
Il ragionamento è elementare. Eppure merita di essere esplicitato, in modo da essere certi di condividerlo. L’unica cosa alla quale è impossibile rinunciare, oggi, è una fonte di reddito che assicuri almeno la copertura dei bisogni fondamentali; e quella fonte di reddito non può che essere, nella stragrande maggioranza dei casi, il proprio lavoro, solitamente al servizio di altri. Quello che dovrebbe essere un diritto, connaturato al proprio status di cittadini e all’aspirazione naturale a diventare parte attiva della comunità cui si appartiene, si tramuta in una sorta di privilegio, che verrà concesso solo a chi darà prova di meritarselo.
Non solo e non tanto per il suo apporto professionale, quanto per la sua totale sottomissione al datore di lavoro. E, per estensione, agli interessi e ai diktat dei potentati che stanno ancora più in alto.
Apparentemente si sottoscrive un contratto di lavoro. Nei fatti si formula una promessa di fedeltà. Il suddito si inchina al suo Signore. Il Signore, bontà sua, gli consente di servirlo.
Oltre che elementare il ragionamento è spietato, ma questo può sorprendere solo gli ingenui: secondo i tipici dettami dell’iperliberismo, che non esita a sacrificare qualsiasi principio etico al conseguimento del massimo profitto, le condizioni di vita delle persone vengono prese in esame soltanto per le ripercussioni che provocano sui processi economici. Gli individui, per così dire, sono un male necessario.
La cui esistenza si giustifica esclusivamente in base a certe necessità di funzionamento del ciclo di produzione e consumo. Un ciclo che in qualche misura li presuppone, ma che al tempo stesso li trascende.
Il loro, per dirla in termini tecnici, è un “valore d’uso”. Ed essendo visti come parti di un meccanismo, anziché come esseri umani da rispettare in quanto tali, e da aiutare nello sviluppo delle proprie attitudini migliori, l’ulteriore conseguenza è la loro sostanziale intercambiabilità.
Da cui discende, tra l’altro, l’assoluta disinvoltura con cui si procede alle delocalizzazioni: all’imprenditore che sposta gli impianti all’estero non interessa affatto il danno che subiranno i suoi concittadini, ma solo il vantaggio aziendale che gliene può derivare. In una nazione degna di tal nome verrebbe perseguito penalmente per condotta antisociale o, quanto meno, privato della cittadinanza; nelle finte nazioni di oggi lo si considera del tutto normale: e anzi, come dimostrano proprio le recenti vicende della Fiat, ci si interroga su come fare per convincerlo a riservare un po’ di lavoro ai suoi connazionali.
Un autentico paradosso: nello stesso momento in cui i rapporti si irrigidiscono a senso unico, smantellando i contratti collettivi e riducendo al minimo le tutele normative (fino a mettere in discussione il delicatissimo e irrinunciabile settore della sicurezza1), la sopraffazione indossa la maschera della generosità. Non solo si rimuove l’idea di sfruttamento, ma la si rovescia nel suo esatto opposto. Il padrone è un benefattore. Il lavoratore è il suo beneficato. Lo stipendio è una via di mezzo tra il compenso dovuto e una regalia, dispensata da qualcuno che in fondo, e in qualsiasi momento, potrebbe decidere di sbaraccare tutto e andarsene chissà dove. A “beneficare” qualcun altro.
Chi vende e chi compra
Nelle società occidentali è più difficile rendersene conto, visto che le dinamiche sono spezzettate a tal punto che non tutti riescono a coglierne l’intima interconnessione, ma a ben vedere succede qualcosa di molto simile a ciò che raccontava John Steinbeck in Furore. Costretta a lasciare l’Oklahoma negli anni della Grande Depressione, la famiglia Joad finisce in California e si mette a lavorare per dei latifondisti locali. I quali, non contenti di pagare dei salari da fame e di speculare così sull’enorme offerta di manodopera, pensano bene di completare l’opera inducendo i braccianti ad alloggiare sulle loro terre, ovviamente in baracche da quattro soldi, e a rifornirsi presso un emporio ubicato anch’esso in prossimità dei campi coltivati e, guarda un po’, di proprietà degli stessi possidenti terrieri.
Un circolo vizioso, a suo modo perfetto. Il lavoro è sottopagato, il cibo e tutto il resto sono costosi. Le occasioni di profitto raddoppiano. Prima si lucra sulla retribuzione, ovvero su ciò che si acquista, poi sui prezzi delle merci, ovvero su ciò che si vende. Il povero resta povero sia perché guadagna poco, sia perché spende troppo. Il povero è in trappola. Se non soggiace alla schiavitù perde i mezzi di sussistenza. Se china la testa riesce a sopravvivere, sempre che le privazioni non lo schiantino, ma non ha più nessuna scelta. E quindi nessuna autonomia.
Cambiato quel che va cambiato, la situazione attuale è analoga. Il cittadino medio viene spremuto una prima volta sul posto di lavoro, e una seconda nel momento in cui deve procurarsi i beni e i servizi, ivi inclusi gli eventuali finanziamenti bancari, di cui ha bisogno. O di cui crede di avere bisogno, per effetto di quell’ulteriore forma di manipolazione e di asservimento che è costituita dai bisogni indotti. In altre parole, egli è vittima di una sorta di intermediazione coatta. È come portare la farina al proprietario del mulino e poi comprare il pane da lui. Peccato che la farina si sia costretti a cederla a basso prezzo, mentre il pane lo si paga a peso d’oro.
Questa intermediazione obbligata, di cui non si parla mai e che comunque verrebbe spiegata come l’esito naturale della libera iniziativa e della conseguente divisione dei ruoli, implica la perdita di qualunque controllo sull’organizzazione complessiva. E, dunque, il venir meno di ogni possibilità di sottrarsi alle iniquità che ne scaturiscono. Non solo ci si indebolisce, nello sforzo interminabile di cavarsela e, tutt’al più, di salire qualche gradino sulla scala del benessere. Quel che è peggio, si contribuisce a rendere sempre più forti le oligarchie che tirano i fili, diventandone di fatto i fiancheggiatori, i solerti esecutori, i complici magari involontari ma ugualmente affidabili.
La via d’uscita
Non è ancora un progetto operativo, se non in minima parte. Non lo è perché, per essere messo in pratica e cominciare a produrre i suoi effetti, richiede un numero di persone molto più alto di quelle che leggono abitualmente il Ribelle e ne condividono le istanze. Inoltre, ognuno dei diversi gruppi dovrebbe essere concentrato in una stessa zona, in modo che gli aderenti possano interagire tra loro in modo assiduo e sistematico. Dando vita, così, a una rete di relazioni economiche – anche economiche – che tendano all’autosufficienza.
Se questo è l’obiettivo finale, che è bene fissare più per sapere dove si sta andando che non per illudersi di poter completare il percorso, alcuni passi si possono muovere immediatamente. O almeno tenersi pronti a farlo, come se ci si stesse preparando a un viaggio (una migrazione) che avrà inizio non appena le condizioni generali lo permetteranno.
Proprio come in un viaggio, quindi, i primi atti da compiere riguardano i preliminari. Uno, studiare attentamente le mappe. Due, pianificare la parte logistica. Tre, last but not least, predisporsi mentalmente ad affrontare quello che ci aspetta, immaginando le difficoltà che si incontreranno e le possibili soluzioni.
Fuor di metafora, le mappe sono quelle della realtà economica circostante, a livello sia macro che micro. La logistica riguarda i mezzi materiali e le persone su cui possiamo contare. Lo scopo del viaggio è uscire dal circolo vizioso di cui si è detto: invece di immettere tutti i nostri atti economici nei circuiti già esistenti, pagando pegno alle loro sperequazioni strutturali, vanno creati dei circuiti alternativi che si basino su altri principi e che mirino ad altri risultati, in antitesi alle speculazioni di grande e di piccolo cabotaggio che ormai sono la regola in qualsiasi attività. Una prima ipotesi, per iniziare da qualcosa che dipende solo da noi, è quella di supplire alla carenza di denaro con prestazioni gratuite reciproche. v Beninteso: non in una logica di scambio “uno a uno”, che altrimenti non farebbe che riprodurre lo stesso approccio utilitaristico delle normali transazioni economiche, ma in una prospettiva di supporto disinteressato e amichevole in cui il vero motore è la solidarietà. O, piuttosto, il piacere, tipico della gratuità, di fare delle cose insieme per il gusto di farle. Ti serve una mano? Se posso te la do. Se e quando le posizioni si dovessero rovesciare spero che tu possa fare altrettanto. Non per risparmiare sulla spesa che dovrei sostenere per acquisire la collaborazione di uno sconosciuto, ma per continuare a trasformare l’esistenza occhiuta dell’ometto liberale nella vita generosa dell’uomo libero.
A molti può sembrare pura utopia, ma è solo perché sono talmente impregnati di una visione economicistica da trovare impensabile ciò che dovrebbe essere del tutto normale. E che in fondo sopravvive, anche se confinato nella dimensione sempre più ristretta dei rapporti amicali. O famigliari, se la famiglia ha conservato qualcosa di sano.
Viceversa, questo tipo di slancio andrebbe recuperato non solo nella sfera del tempo libero ma anche in quella lavorativa. La verità, semmai la si fosse dimenticata, è semplice e gratificante: tra persone leali, e non obnubilate dalla smania di guadagnare di più e di fare carriera a ogni costo, si collabora meglio. Ci si parla con franchezza. Ci si libera di quel sottofondo di competizione, e di antagonismo, che avvelena tanti ambienti di lavoro, inducendo tutti a stare in guardia e a condividere solo lo stretto indispensabile, nel timore che i “colleghi” se ne possano servire in modo scorretto.
È un po’ come con la decrescita: sta diventando una necessità, ma dovrebbe essere innanzitutto una scelta. Recuperare forme di organizzazione economica differenti, come le vere cooperative e le vere Casse di risparmio, è sempre di più una risposta obbligata, in tempi di crescente disoccupazione e di finanza speculativa. Ma dovrebbe essere un’affermazione totalmente libera, degna di chi non si ribella al sistema attuale perché è escluso da certi privilegi ma perché quei privilegi li rifiuta. Non è solo che li trova iniqui e quindi sbagliati. È che non sa cosa farsene.
Federico Zamboni
www.ilribelle.com
10.01.2011
Note:
1) Il 25 agosto 2010 il ministro Tremonti ha dichiarato che «robe come la 626 (la legge sulla sicurezza sul lavoro) sono un lusso che non possiamo permetterci. Sono l’Unione europea e l’Italia che si devono adeguare al mondo». In seguito si è corretto sostenendo che il suo vero bersaglio erano i controlli eccessivi e di stampo burocratico, mentre la sicurezza sul lavoro rimane «una conquista irrinunciabile della civiltà occidentale».
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