venerdì 29 marzo 2013

C’è un solo governo possibile, il resto è inganno - Giulio Sapelli

L’economista, storico e intellettuale Giulio Sapelli e l’unica via per evitare il disastro economico, sociale e culturale dell’Italia e dell’Europa: federalizzazione del continente, nuova Banca Pubblica, riforma Bce sul modello Fed, divieto di speculazione finanziaria, tasse al massimo del 35%

di: Pier Paolo Flammini


Probabilmente lui è l’intellettuale (non economista che è riduttivo: ma intellettuale perché economista, storico e anche sociologo nel senso di conoscitore della psicologia umana e sociale, la quale non si piega a direttive imposte) che inserito in un governo potrebbe davvero condurre una battaglia per la “vita” anziché la morte dell’Italia e dell’Europa, oramai in mano ad una banda di scriteriati senza forza. Sto parlando di Giulio Sapelli. E’ anche da considerarsi un moderato, dunque capace di imporre un deciso cambio di marcia senza incutere timore nel mondo produttivo (che sta morendo e che probabilmente si getterà sempre più su posizioni estreme se non ci saranno cambiamenti).

Dunque l’Italia è “col fiato sospeso” (si fa per dire) nell’attesa di un nuovo governo. Ma governo-per-fare-cosa? Non mi interessa chi avrà il potere. Io voglio un governo che faccia sue le proposte scritte da Giulio Sapelli su “Ilsussidiario.net” lo scorso 23 gennaio:

PRIMO TEMPO

Una Banca nazionale a proprietà pubblica per la continuazione dell’attività delle imprese di ogni dimensione e filiera concedendo prestiti alle imprese e non entrando nel loro capitale” per “fondare una banca per lo sviluppo su base nazionale che rastrelli fondi da tutte le risorse esistenti dallo Stato”: questo per impedire la moria di piccole e medie imprese e la perdita di lavoro, “una catastrofe nazionale”. Questo, scrive Sapelli, “implica la riforma radicale dello Statuto della Bce sull’orma di quello della Fed. La banca deve essere uno strumento monocratico”. Inoltre Sapelli incita alla creazione di “imprese cooperative di ogni tipo e in ogni settore, così da creare lavoro, crediti al consumo, beni a basso prezzo, occupazione e lavoro e massimizzare occupazione e non profitto”.

SECONDO TEMPO
“Da ciò deriverà un aumento del debito pubblico: di qui la rinegoziazione essenziale e totale di tutti i trattati europei che non hanno nessuna giustificazione economica e giuridica (…) ne deve derivare l‘eliminazione dei tetti di deficit e dei tetti pluriennali che non hanno altro scopo che imporre un dominio deflazionistico (ovvero una contrazione di salari e stipendi, ndr) teutonico su tutta l’Europa, seguendo le orme di idee economiche già sviluppatesi in Germania alla metà degli anni Trenta e bovinamente accettate da banchieri centrali incompetenti e politici collegati alle grandi banche d’affari che speculano su quelle decisioni”.
Ancora, aggiunge l’economista torinese, “farlo rapidamente implica impedire che l’esplosione dell’euro accompagni l’esplosione umana e sociale che si avvicina; e non si tratta – si badi bene – di scioperi, rivolte, ecc. I lavoratori e la gente comune e per bene sono troppo disillusi, stanchi, anomici per ribellarsi collettivamente: assisteremo ad atti isolati o di piccoli gruppi molto violenti e tutti disperati”.

TERZO TEMPO
Ridefinizione dei poteri del Parlamento europeo eliminando le commissioni e smantellando la burocrazia europea centralizzata. La federalizzazione dell’Europa riporterà agli stati competenze e poteri. Il Parlamento dovrà votare la rinegoziazione del debito pubblico europeo su scala mondiale, eliminando derivati e altri strumenti di distruzione finanziaria di massa secondo le indicazioni già redatte dall’ex governatore della Banca d’Inghilterra Lord King – e da Paul Volcker per il Presidente Obama – e sino ad oggi inascoltate, spezzando in due l’industria finanziaria e tornando in tutto il mondo, e in primis in tutta Europa, alle regole di governance precedenti la famigerata legge Amato in Italia e alle famigerate altre leggi che abolirono il Glass Steagall Act voluto da Roosevelt dopo la crisi del 1929″. Infine la necessità di ridurre le imposte sulle imprese al 35%, ridurre le tasse sul lavoro, introdurre il contratto di apprendistato.

Altre vie non ce ne sono. Purtroppo i nostri politici e l’intera classe dirigente (quasi tutta quella che è sfilata in questi giorni per le consultazioni con Bersani) o sono collusi col potere finanziario, o, nel caso migliore, sono imbottiti di ideologia neoliberista e quindi non riescono neanche a pensare uno scenario diverso dall’attuale follia europea. Banca pubblica nazionale, ripristino del Glass Steagall Act, revisione di tutti i trattati sono concetti estranei persino ai sindacalisti, incomprensibili dalle associazioni imprenditoriali, estranei alla cultura da anime belle della cultura. Ci attendono brutti tempi.

martedì 26 marzo 2013

Il manifesto dell’economia sociale

Nuovi stili di vita e nuovi modi di organizzare la società e l’economia. Ecco il manifesto per l’Italia sostenibile fatto da chi nell’economia sociale opera da anni

di Andrea Di Turi


S’intitola “Per un’economia sociale. Idee e persone per un’Italia sostenibile”. È un Manifesto, realizzato da chi nel mondo dell’economia sociale opera da anni. E oggi chiede a chi avrà responsabilità di governo di guardare alle tante, felici esperienze di altra economia esistenti in Italia per gettare le basi di un nuovo modello di sviluppo sostenibile, equo e inclusivo.

Il Manifesto prevede cinque aree, come si può vedere sul sito web dedicato (che riporta l’elenco dei firmatari):
1. Crisi di fiducia
2. Risorse della società civile
3. Economia sociale di territorio
4. Nuova governance internazionale
5. Conversione ecologica.

In queste aree si offre un’analisi della situazione socio-economica in cui l’Italia, ma non solo, si trova e degli elementi di fondo (in primis il crollo della fiducia nel futuro) che la caratterizzano. Ma soprattutto si indicano le direttrici su cui operare per invertire la rotta. Elaborando proposte che pescano da quel vastissimo bacino di realtà e modelli di economia sociale che si sono affermati negli anni: imprese sociali, commercio equo-solidale, finanza etica, ambientalismo e consumo critico, volontariato, cooperazione internazionale.

Territori e auto-organizzazione
- Combattere la crisi di fiducia che sta corrodendo sia la società civile, sia l’economia, significa avviare una ricostruzione dal basso, dai territori e dalle persone, da quel capitale sociale che è la prima vera ricchezza, non solo economica, di un Paese. È questo il primo e forse più importante messaggio lanciato dal Manifesto.

Occorre dunque guardare alle esigenze delle persone, specie le più deboli e a rischio di emarginazione, e riscoprire le forme di cooperazione e mutualismo, di auto-organizzazione fra i cittadini che fanno parte della storia dell’Italia. Ma che l’ideologia neoliberista ha progressivamente messo ai margini. (LEGGI ANCHE: “Impresa sociale” per uscire dalla crisi)

No al neoliberismo - La riscoperta di forme organizzate di partecipazione, sociale ed economica insieme, deve però andare di pari passo con la definitiva archiviazione dei falsi dogmi neoliberisti sulle miracolose capacità del libero mercato, del resto miseramente e drammaticamente crollate con la crisi. Si deve invece riaffermare la possibilità, anzi, la necessità, di un modo diverso di intendere la relazione tra economia e società, che sappia andare al di là dell’ormai sterile contrapposizione tra Stato e mercato.

Ciò significa rifiutare anche l’ossessione della crescita illimitata, diretta conseguenza del pensiero neoliberista. Il quale è anche alla radice dell’aumento preoccupante delle disuguaglianze e della decadenza dei beni comuni che la crisi porta con sé.
(LEGGI ANCHE: Economia dei beni comuni: un nuovo modello di sviluppo)

Lavoro e inclusione sociale - Mettere al centro il lavoro: su questo il Manifesto è molto chiaro. Significa agire per l’inclusione sociale, la protezione dei lavoratori precari e disoccupati, la redistribuzione del carico fiscale sui grandi patrimoni e le rendite. E per un quadro normativo del mercato del lavoro da definire nella prospettiva del “lavoro decente”, possibilmente stabile e che garantisca il potere d’acquisto anche ai redditi bassi.

Per conseguire tali obiettivi è però indispensabile che il mondo delle imprese sia incentivato verso l’adozione di strategie e programmi di responsabilità sociale (o csr), che appunto integrano a pieno titolo nell’agire economico quelle considerazioni sociali e ambientali che le teorie neoliberiste rifiutano. Serve dunque ripensare i modi di fare impresa: nell’ottica del lungo periodo, del radicamento sul territorio e del rispetto della dignità del lavoro. Riconoscendo come modi d’intendere l’attività economica fondati su motivazioni etico-sociali, e attenti al sociale e all’ambiente, soprattutto con la crisi riescano a creare occupazione e favorire lo scambio meglio di quelli tradizionali orientati unicamente al profitto.

Economia e stili di vita da riconvertire - Ineludibile è anche la promozione della transizione verso modelli di attività economica sostenibili. Vale a dire non più predatori nei confronti delle risorse naturali ma capaci di tutelarle e valorizzarle.

Energie rinnovabili, risparmio e efficienza energetica, riduzione delle emissioni di Co2, lotta allo spreco e al consumo di territorio, recupero e riutilizzo di materiali, produzioni non inquinanti: tutto ciò deve trovare posto nell’agenda delle priorità. E si devono prevedere incentivi per i comportamenti socialmente e ambientalmente responsabili delle imprese come dei consumatori, che vanno resi sempre più consapevoli delle conseguenze sociali e ambientali dei loro stili di vita e di consumo. (LEGGI ANCHE: Cos’è la green economy)

Un nuovo ordine internazionale
- Nell’era della globalizzazione, sarebbe illusorio ritenere che un Paese, per quanto virtuoso, potesse da solo reindirizzare il modello di sviluppo mondiale. Il Manifesto indica perciò una serie di ambiti nei quali occorre operare profonde revisioni su scala globale, identificando quelllo che può essere definito un nuovo ordine internazionale.

Si tratta ad esempio di rivedere le regole del commercio internazionale, la regolamentazione dei mercati finanziari, il controllo dell’operato delle banche too-big-to-fail. Ma si parla anche di democratizzazione dell’informazione, di contrasto su vasta scala alla circolazione dei capitali illegali e di affermazione di una visione regionalistica nei rapporti internazionali, ad esempio costituendo gli Stati uniti d’Europa: ciò, infatti, in un’epoca in cui gli equilibri internazionali si giocano soprattutto fra attori nazionali (come Usa o Cina) di grandi dimensioni, potrebbe essere decisivo per dare maggiori garanzie di pace, che è la pre-condizione per lo sviluppo e il benessere.


Tratto da:http://www.abcrisparmio.it/guide/altra-economia/il-manifesto-dell-economia-sociale

domenica 24 marzo 2013

Terza Guerra Mondiale, incubo alle porte?

La crisi dell’Eurozona e poi una guerra di proporzioni globali. I due schieramenti: Russia-Cina vs Europa-USA. Alcuni scenari prebellici: collasso europeo, caso Cipro, alleanza Australia-USA e contesa coreana

Se guerra ci sarà, sarà entro il 2015. Almeno su questo concordano economisti e analisti. L’allarme è stato già lanciato da Kyle Bass fondatore del gruppo statunitense Hayman Capital Management, secondo cui la crisi dell’Eurozona si concluderà con una guerra di proporzioni globali. Fine della crisi e inizio della guerra potrebbe essere il default finanziario di alcuni Paesi periferici dell’Eurozona, come Grecia, Spagna, Portogallo, Italia e Cipro (quest’ultimo ormai imminente). Tra l’altro, la storia si ripeterebbe: anche la crisi del 1929 determinò l’emergere delle dittature e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Anzi, proprio la finanza internazionale sta combattendo la sua guerra per il predominio e lo svuotamento delle democrazie e degli Stati, servendosi dei media, dei politici-camerieri e degli stessi governi che crea. Ma questa guerra - almeno per ora - non si combatte sul campo di battaglia, ma nelle redazioni dei giornali, nelle televisioni, nelle banche, nelle agenzie di rating, nelle multinazionali.
Nessun vuoto allarmismo o panico. Bass parte da una semplice considerazione: il debito nei mercati creditizi internazionali ha raggiunto il 340% della produttività globale. Tra l’altro, i segni di questo tragico avvento sarebbero sempre più evidenti.

LE PROBABILI ALLEANZE -Innanzitutto, si moltiplicano le alleanze politico-finanziarie: da un lato, l’asse russo-cinese, dall’altro l’asse europeo-statunitense. Ad esempio, l’accordo Australia-USA permette alle navi da guerra e agli aerei americani di utilizzare il territorio australiano come base strategica. E da un momento all’altro il nucleare iraniano potrebbe accendere un conflitto latente.
Secondo alcuni, gli schieramenti sarebbero già pronti: da una parte USA, Regno Unito, Giappone, Corea del Sud, Israele, Canada e Australia (ad aggiungersi Unione Europea, Turchia, Sudafrica, Cile e Colombia), dall’altra Cina, Corea del Nord, Iran e Siria, con l’inserimento di Russia, alcuni Paesi africani e la maggioranza dei Paesi sudamericani che adottano una politica anti-occidentale (si paventa un nuovo default argentino).
Esempio lampante dei futuri schieramenti sono le vicende che hanno caratterizzato il 2012. La NATO non è riuscita a impedire la rielezione di Putin, nonostante il NED (National endowment for democracy), ONG pro-atlantica per eccellenza, avesse influenzato con discrezione la stampa russa. E il veto russo-cinese ha fermato l’avanzata americana in Siria (qui l’insurrezione è fabbricata e condotta dall’estero).
La Siria è poi alleata della Russia, mentre l’Iran è il principale partner commerciale della Cina, a cui fornisce abbondanti quantità di petrolio. Il vice primo ministro russo delegato agli affari militari, Dimitri Rogozin, ha pure precisato che «ogni attacco contro l’Iran sarà considerato una minaccia diretta alla sicurezza della Russia». Di conseguenza, la presenza di truppe militari anglo-statunitensi si è rinforzata nello stretto di Hormuz (lo stretto che divide la penisola arabica dalle coste dell’Iran) da gennaio 2012, con il massiccio trasferimento di basi navali e aeree.

SCENARI PREBELLICI - Il 2013 potrebbe delineare scenari prebellici. Prima il collasso dell’economia di una Unione Europea di forte matrice tedesca che non è mai riuscita ad esprimere una unitaria e serie politica economica, poi una Germania balbettante e il caso Cipro (Spagna, Portogallo e Italia sono sull’orlo del precipizio).

Inoltre, lo scorso 11 marzo è saltato l’armistizio tra le due Coree. La Corea del Nord ha considerato estinto l'armistizio del 1953 con la Corea del Sud, dopo l'avvio delle esercitazioni militari congiunte tra Washington e Seoul, considerate dalla Repubblica popolare nordcoreana un test per l’invasione del suo territorio (si aggiunga l'inasprimento delle sanzioni delle Nazioni Unite dopo il terzo test nucleare a febbraio).
A breve ci saranno anche le elezioni in Iran (si attendono decisioni sulla politica nucleare che sarà adottata) e Israele (necessario rielaborare anche la politica nei confronti della Palestina e del Medio Oriente). Si aggiunga il conflitto siriano (il regime di Assad è alleato con la Russia) e la contesa cino-giapponese delle Isole Senkaku, oltre all’accordo militare tra il primo ministro australiano Julia Gillard e il presidente Barack Obama (l’Australia giocherà la sua parte nell’eventualità di un attacco statunitense in Asia).
La guerra sul campo potrebbe essere lo spettro alle porte. Per ora, la guerriglia è quella della guerra finanziaria, silenziosa grazie alla muta informazione, alla menzogna e all’attacco gratuito e vendicativo. Intanto, le pedine prendono posto sulla scacchiera.



Tratto da: http://www.tzetze.it/2013/03/terza-guerra-mondiale-incubo-alle-porte.html

mercoledì 20 marzo 2013

Cipro: Giulio Sapelli "Decisione pazzesca, si rischia un panico bancario in tutta Europa"

di Luigi dell'Olio per Huffington Post

“La decisione presa dai ministri delle Finanze dell’Eurozona smentisce un principio cardine del Trattato di Maastricht come la libera circolazione dei capitali: si tratta di una scelta pazzesca, con conseguenze gravissime”. Non usa mezzi termini per bocciare la decisione presa nel week-end dall’Ue per salvare Cipro (prelievi forzosi sui conti correnti, nella misura del 6,75% fino a 100mila euro e del 9,9% sopra questa soglia), Giulio Sapelli, docente all’Università di Milano e membro dell’International Board dell’Ocse per il non profit.

Da economista e storico, come giudica la posizione europea?

Nel peggior modo possibile, come del resto appare evidente dall’apertura fortemente negativa di tutti i mercati finanziari. L’Unione europea ha tra i suoi principi cardine la libera circolazione dei capitali, ma da oggi questo principio non sembra valere più. Provi a pensare come accoglierà questa decisione un fondo di investimenti internazionale che ha continuato a credere nell’area nonostante i problemi di questi anni: la tentazione di ritirare i capitali a questo punto è fortissima.

Senza trascurare la reazione dei cittadini…

Certamente: si tratta di una posizione priva di qualsiasi fondamento giuridico, così come di logica. Si rischia una fuga dai depositi bancari in tutto il Vecchio Continente. Aggiungerei anche i rischi di tenuta politica a questo punto…

Si riferisce alle pulsioni anti-europeiste che stanno prendendo piede?

Si tratta di un fenomeno innegabile, che rischia di uscire rafforzato da questa decisione. Chi ha scelto in questo modo, per altro, ha dimostrato di non conoscere la storia: dal 1974 Cipro è divisa in due, con un’area sotto l’influenza greca e l’altra che subisce l’influsso turco. Stiamo aggiungendo ulteriore instabilità a un’area già di per sé esplosiva.

Cosa si sarebbe potuto fare di diverso?

Il problema di Cipro è che nel Paese sono stati “sciacquati in Arno” i panni della finanza malata. La risposta doveva essere una bonifica della stessa, con interventi per evitare che si ripetessero gli abusi di questi anni. E invece si è deciso di colpire i risparmi.

A suo modo di vedere questa scelta potrebbe acuire le diffidenze verso l’Europa della Gran Bretagna, già da tempo in fibrillazione su questo fronte?

Più che una prospettiva, è una realtà. L’Uk ha nell’isola circa mille militari, tanto che il cancelliere David Cameron si è affrettato a rassicurarli sul fatto che riceveranno ristoro per i prelievi sui loro conti.

Un’ultima domanda: a suo modo di vedere, quali sono le cause di una decisione così grave?
Vedo l’origine di tutti i problemi che stiamo vivendo negli ultimi mesi nel predominio della tecnocrazia rispetto ai governanti eletti dai popoli. I massimi esponenti degli organismi internazionali spesso non sono espressione del volere dei cittadini, per cui sentono di avere le mani libere nelle decisioni da prendere. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

martedì 19 marzo 2013

Co-housing, il nuovo modo di abitare

Decisamente più numerosi i casi oltre confine, soprattutto in USA, ma in aumento anche da noi

di Ilaria Lucchetti


Vivere meglio in condivisione. È questa la filosofia su cui si basa il co-housing, stile di vita in crescita all’estero e in Italia.

Chi opta per questa scelta va incontro a indubbi risparmi e semplificazioni logistiche: i living condominiali, il micronido, l’orto o la serra, la portineria che paga le bollette e riceve la spesa piuttosto che il servizio di car-sharing.

A Milano e dintorni, diversi i casi di best practices del settore. C’è, ad esempio, “TerraCielo” a Rodano, confinante con il capoluogo attraverso il parco Sud, che è inserito in un contesto ambientale verde e rigorosamente in classe energetica A+. “Cosicoh” invece è il primo esperimento in tutta Europa di co-housing in affitto: una soluzione perfettamente integrata in città, è in una via tranquilla alle spalle di via Ripamonti, al costo concorrenziale di dieci euro al metro quadro. Che, con la crisi in atto, non è un dettaglio da poco. In Bovisa, poi, c’è l’Urban Village, apripista italiano del settore, aperto da un paio d’anni e dotato di giardino, piscina e deposito GAS (Gruppo d’Acquisto Solidale).

Ma sono davvero tante le realtà che si stanno muovendo in questa direzione in tutta Italia. Dal Veneto alla Toscana, dall’Emilia alle Marche, passando per il Piemonte e per la Sicilia, non c’è regione che sia immune dalla “febbre” dell’abitare in condivisione.

Per chi volesse approfondire l’argomento www.cohousingitalia.it e www.cohousing.it



Tratto da: http://wisesociety.it/architettura-e-design/co-housing-il-nuovo-modo-di-abitare/

domenica 17 marzo 2013

MEMMT sfida gli economisti eterodossi italiani

Un bel confronto pubblico, perchè no?


Warren Mosler, Mathew Forstater, Alain Parguez e Paolo Barnard della Mosler Economics MMT sfidano tutti gli economisti eterodossi italiani a un challenge pubblico sulle rispettive idee di salvezza nazionale in un momento in cui l’Italia è al collasso come mai dal dopoguerra a oggi.

Prego gli economisti eventualmente interessati, a iniziare da Bellofiore, Zezza e Bagnai, a contattarmi su dpbarnard@libero.it per accettazione o diniego per iscritto. Mettere “MEMMT challenge, Prof. Tal dei tali” in oggetto alle mail. (non rispondo a lettori che scrivano su questo)

PB

mercoledì 6 marzo 2013

La “Grillonomics”. Analisi del programma economico del MoVimento 5 Stelle

Il numero di MicroMega in edicola e libreria da oggi pubblica l’analisi dei programmi economici dei partiti in vista delle elezioni del 24 febbraio. Quella che segue è una sintesi del saggio di Vladimiro Giacché sul programma del MoVimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Insieme a questo, MicroMega pubblica anche un articolo di Sergio Cesaratto sul programma del Centrosinistra e uno di Marco Passarella su quello della coalizione guidata da Mario Monti. L’indice completo della rivista è disponibile a questo link.

Il Movimento 5 Stelle sarà un protagonista a tutti gli effetti della vita politica del nostro paese. Ecco perché le sue proposte vanno ‘prese sul serio’ ed esaminate con lo stesso rigore che si applica a quelle degli altri partiti. Purtroppo il programma della forza guidata da Beppe Grillo è spesso estremamente impreciso e vago, sopratutto in tema di economia. Ecco quel che dice, e sopratutto quel che non dice, la Grillonomics.

di Vladimiro Giacché

Nell’affrontare il programma economico del Movimento 5 Stelle è opportuno preliminarmente sgombrare il campo da possibili equivoci. Uno su tutti: chi scrive non appartiene al novero di chi ritiene il Movimento fondato da Beppe Grillo un pericoloso movimento eversivo con il quale non ha senso dialogare e le cui proposte non possono essere neppure prese in considerazione [...] considererò il programma di Grillo come si fa (o si dovrebbe fare) col programma di ogni partito o movimento: discutendo nel merito di quello che propone. [...] il Movimento 5 Stelle il programma ce l’ha. Anzi, ne ha due. L’uno, più articolato, è un documento di 15 pagine scaricabile dal blog di Beppe Grillo. L’altro, molto più sintetico e consistente in 16 punti, è stato proposto (e rilanciato dagli organi d’informazione) il 27 dicembre 2012, in una sorta di risposta alla cosiddetta Agenda Monti. Purtroppo, i due programmi non si sovrappongono perfettamente (in ciascuno dei due sono trattati anche temi non presenti nell’altro), e questo complica un po’ le cose.
In ogni caso procederò come segue: partirò dal programma economico che si può ricavare dai 16 punti, per poi verificarne più approfonditamente i contenuti con l’aiuto del documento programmatico vero e proprio.


Cosa c’è nel programma economico di Grillo

Nei 16 punti del 27 dicembre, per la verità, di economia non si parla troppo. Riproduco testualmente i punti di interesse sotto tale profilo: «reddito di cittadinanza» (punto 2), «misure immediate per il rilancio della piccola e media impresa sul modello francese» (13), «ripristino dei fondi tagliati alla sanità e alla scuola pubblica con tagli alle Grandi Opere Inutili come la Tav» (14).
Hanno inoltre implicazioni economiche anche altri punti del programma: «legge anticorruzione» (punto 1), «abolizione dei contributi pubblici ai partiti» (3), «abolizione immediata dei finanziamenti diretti e indiretti ai giornali» (4), «referendum sulla permanenza nell’euro» (6), «informatizzazione e semplificazione dello Stato» (15), «accesso gratuito alla Rete per cittadinanza» (16).
Per quanto riguarda il programma del movimento, esso approfondisce anche temi non presenti nei 16 punti. Lo ripercorro rapidamente seguendo i capitoli di cui si compone.

Energia. Assieme alla salute, l’unico altro caso in cui le proposte sono enunciate con un tentativo di ragionamento articolato – e non soltanto per cenni molto sintetici – è il tema dell’energia. Al riguardo il programma si sofferma in particolare sui temi del risparmio energetico e delle energie rinnovabili. Si propongono incentivazioni per fonti rinnovabili e biocombustibili, e si chiede (giustamente, anche se la cosa non sembra di competenza del parlamento) l’applicazione di norme già in essere, ma disattese, sul risparmio energetico. C’è anche qualche incoerenza. Ad esempio, prima si confrontano i rendimenti energetici attuali delle centrali termoelettriche dell’Enel con gli standard delle centrali di nuova generazione, poi però si dice che non bisogna costruire nuove centrali ma rendere più efficienti quelle già esistenti.

Informazione. Il tema dell’informazione, al quale il Movimento 5 Stelle è tradizionalmente molto sensibile, ha alcune implicazioni di natura economica. Sia in termini di risparmi per lo Stato (attraverso l’eliminazione dei contributi pubblici per il finanziamento delle testate giornalistiche: è anche il quarto dei 16 punti), sia in termini di maggiori spese: così è per la «cittadinanza digitale per nascita, accesso alla rete gratuito per ogni cittadino italiano» (una più chiara articolazione del sedicesimo punto) e per la «copertura completa dell’Adsl a livello di territorio nazionale»; così è, soprattutto, per la «statalizzazione della dorsale telefonica, con il suo riacquisto a prezzo di costo da Telecom Italia e l’impegno da parte dello Stato di fornire gli stessi servizi a prezzi competitivi a ogni operatore telefonico».

Economia. Il tema economia è comprensibilmente molto vasto. Possiamo raggruppare le proposte secondo l’ambito a cui si riferiscono.
Molte proposte concernono il funzionamento del mercato finanziario: introduzione della class action, abolizione delle scatole cinesi in Borsa, abolizione di cariche multiple da parte di consiglieri di amministrazione nei consigli di società quotate (questo per la verità è già avvenuto con il decreto legge 201/2011, che regolamenta il cosiddetto «divieto di interlocking», e che è già applicato in base al regolamento congiunto Consob-Banca d’Italia dell’aprile 2012), «introduzione di strutture di reale rappresentanza dei piccoli azionisti nelle società quotate», introduzione di un tetto per gli stipendi dei manager delle società quotate in Borsa e delle aziende con partecipazione rilevante dello Stato, divieto di nomina di persone condannate in via definitiva come amministratori in aziende partecipate dallo Stato o quotate in Borsa (come caso da non ripetere il programma cita Paolo Scaroni all’Eni), abolizione delle stock options, divieto di acquisto a debito di una società.
Altre riguardano più precisamente il settore bancario: questo vale per il divieto di incroci azionari tra sistema bancario e sistema industriale e per l’introduzione della responsabilità e compartecipazione alle perdite degli istituti finanziari per i prodotti finanziari che offrono alla clientela.
Quanto al mercato del lavoro, troviamo la proposta di abolizione della (cosiddetta) legge Biagi e quella di un «sussidio di disoccupazione garantito» (che a dire il vero è un concetto diverso dal «reddito di cittadinanza» menzionato al secondo dei 16 punti citati sopra).
Riguardano i grandi settori economici della produzione di merci e servizi altri obiettivi: «impedire lo smantellamento delle industrie alimentari e manifatturiere con un prevalente mercato interno» (si propone anche di «favorire le produzioni locali»), abolire i «monopoli di fatto, in particolare Telecom Italia, Autostrade, Eni, Enel, Mediaset e Ferrovie dello Stato» e mettere in opera «disincentivi alle aziende che generano un danno sociale (per esempio distributori di acqua in bottiglia)». Nessun cenno, invece, alle «misure immediate per il rilancio della piccola e media impresa sul modello francese» che rappresentano il tredicesimo dei 16 punti. Non conoscendo quale sia «il modello francese» a cui Grillo si riferisce, non è facile capire se questa lacuna del programma dettagliato sia grave o meno.
Infine, quanto alla riduzione del debito pubblico, si ritiene che essa possa essere conseguita «con forti interventi sui costi dello Stato con il taglio degli sprechi e con l’introduzione di nuove tecnologie per consentire al cittadino l’accesso alle informazioni e ai servizi senza bisogno di intermediari» (corrisponde grosso modo al quindicesimo punto).

Trasporti. Per quanto riguarda i trasporti, molti dei provvedimenti proposti vanno nella direzione di un disincentivo all’uso dell’automobile nei centri urbani. Quanto alle ferrovie, si propone il «blocco immediato della Tav in Val di Susa» e per contro lo «sviluppo delle tratte ferroviarie legate al pendolarismo». Più in generale, si propone una riduzione della mobilità lavorativa attraverso incentivi al telelavoro e, ancora una volta, alla copertura dell’intero paese con la banda larga.

Salute. Anche sul tema della salute, come su quello dell’ambiente, troviamo punti sviluppati in maniera più argomentata di quanto accada per gli altri temi. Qui il programma di Grillo parte da una constatazione corretta, e assai sgradita alle diverse destre nostrane (tanto Berlusconi/Lega, quanto Monti): «L’Italia è uno dei pochi paesi con un sistema sanitario pubblico ad accesso universale». Questa caratteristica è però minacciata da un lato dal federalismo e dall’attribuzione alle regioni dell’assistenza sanitaria (il testo parla di devolution, ma il concetto è questo), dall’altro al fatto che «si tende a organizzare la sanità come un’azienda», facendo prevalere gli obiettivi economici sulla salute e sulla gratuità dei servizi. La risposta enunciata nel programma è l’imposizione di un ticket progressivo e proporzionale al reddito sulle prestazioni non essenziali e la possibilità di destinare l’8 per mille alla ricerca medico-scientifica.

Istruzione. Infine, l’istruzione. Qui si chiede l’abolizione della legge Gelmini, il finanziamento pubblico esclusivamente per la scuola pubblica e investimenti nella ricerca universitaria. Per il finanziamento alla scuola (e anche alla sanità) si può fare riferimento al quattordicesimo dei 16 punti: «ripristino dei fondi tagliati alla sanità e alla scuola pubblica con tagli alle Grandi Opere Inutili come la Tav». A occhio sembra un po’ poco… Ma la parte di programma sull’istruzione che suscita maggiori perplessità è quella relativa agli strumenti e alle modalità di studio: se si può condividere l’obiettivo di una «diffusione obbligatoria di internet», la «graduale abolizione dei libri di scuola stampati» non è affatto condivisibile. Lo stesso «accesso pubblico via Internet alle lezioni universitarie» non sembra un obiettivo confortato dai risultati (in genere tutt’altro che brillanti) ottenuti dalle cosiddette «università a distanza». Infine, due obiettivi francamente bizzarri, anche se molto di moda, sono le proposte di insegnamento obbligatorio dell’inglese dall’asilo e di abolizione del valore legale dei titoli di studio.


Cosa non c’è nel programma economico di Grillo

[...]


Euro. Nel programma in 16 punti troviamo l’unico accenno all’euro e all’Europa che sia dato rinvenire nei programmi del Movimento.
Non a caso, esso non riguarda un giudizio sui pro e contro della moneta unica, né sui processi che attualmente interessano l’Unione monetaria (balcanizzazione finanziaria e progressiva divergenza tra le economie dell’Eurozona, processi entrambi molto negativi per l’Italia e potenzialmente catastrofici per la stessa sopravvivenza della moneta unica), né sulle conseguenze per il nostro paese del cosiddetto fiscal compact e delle misure di austerity depressiva decise a livello europeo (con alcune tra esse, su tutte la riduzione del 5 per cento annuo del debito in eccesso rispetto al 60 per cento del pil, che colpiscono in misura particolarmente grave il nostro paese).
Si tratta invece della proposta di lanciare un «referendum sulla permanenza nell’euro». È un obiettivo che parla direttamente alla necessità, molto avvertita dai cittadini, di decidere del proprio destino e del ruolo dell’Italia in Europa. Ma è un obiettivo sbagliato: anche i critici dell’euro più feroci e conseguenti (si pensi ad Alberto Bagnai) hanno infatti ben chiaro che uno dei presupposti essenziali per un’eventuale uscita non catastrofica di un paese dalla moneta unica consiste nell’avvenire in maniera rapida e inattesa, ponendo altrettanto tempestivamente vincoli sui movimenti dei capitali (in caso contrario, infatti, sarebbero pressoché certi un’enorme fuoriuscita di capitali e il fallimento in serie delle banche del paese interessato). Per questo motivo, è evidente che una campagna referendaria sull’euro condurrebbe l’Italia alla bancarotta ancora prima dell’eventuale uscita dall’euro. In ogni caso, è evidente che quest’unico accenno all’euro, slegato da ogni ragionamento sulla situazione europea (e sulle condizioni italiane in questo contesto), è molto debole e scarsamente persuasivo.
Ma a ben vedere non è questa l’unica, e neppure la principale lacuna del programma del Movimento 5 Stelle. Il punto è che mancano i capitoli cruciali di un ragionamento sulla situazione economica nazionale.

Lavoro. Come abbiamo visto sopra, gli unici cenni che riguardano il lavoro sono relativi all’abolizione della legge Biagi e all’indennità di disoccupazione. Un po’ poco in un paese che negli ultimi due anni ha conosciuto un vero e proprio smantellamento delle tutele del lavoro consolidate da oltre quarant’anni. L’abolizione di fatto del diritto di reintegro per i lavoratori licenziati non per giusta causa (art. 18 dello Statuto dei lavoratori) e lo smantellamento del presidio rappresentato dalla contrattazione nazionale (grazie all’articolo 8 del DL 138/2011 e alla libertà di deroga in peggio a livello aziendale delle condizioni stabilite nel contratto nazionale) rappresentano, molto semplicemente, una regressione di quasi mezzo secolo per i diritti dei lavoratori. Ma non rappresentano soltanto questo. Essi sono altrettanti tasselli di un modello di competitività che oltre ad essere ingiusto è perdente ed economicamente fallimentare. [...]
Fisco. Anche il tema del fisco è completamente trascurato. E dire che si tratta di uno dei nodi chiave per la finanza pubblica italiana. E quindi anche dal punto di vista del reperimento delle risorse necessarie a realizzare svariati punti del programma di Beppe Grillo. Non si può ragionevolmente pensare che la riduzione del debito pubblico possa essere conseguita – come si afferma nel programma del Movimento 5 Stelle – soltanto «con forti interventi sui costi dello Stato con il taglio degli sprechi e con l’introduzione di nuove tecnologie» (le quali ultime, anzi, abbisognano di ingenti investimenti che potranno essere ammortizzati in tempi non brevissimi).
Stando ad alcuni interventi pubblici dei mesi scorsi, si direbbe che Beppe Grillo negli ultimi mesi abbia scelto la strada più facile sui temi della fiscalità: quella dell’attacco a Equitalia (comodo capro espiatorio delle leggi sbagliate di questi anni), anziché quella della rivendicazione dell’equità fiscale e del rispetto della legge da parte di tutti i cittadini, a cominciare da chi da sempre scarica sugli altri (soprattutto sui lavoratori dipendenti) l’onere di pagare le tasse. [...]

Politica industriale. Le indicazioni del programma del Movimento 5 Stelle in tema di economia, come abbiamo visto, sono molto focalizzate sui mercati finanziari, ed esprimono abbastanza chiaramente gli interessi dei piccoli risparmiatori. Significative al riguardo la proposta di introdurre una vera class action e anche la suggestiva idea (purtroppo non meglio precisata) di introdurre «strutture di reale rappresentanza dei piccoli azionisti nelle società quotate».
Il problema nasce quando si passa a proposte di politica economica più generale. Il divieto di incrocio azionario tra banche e industria, ad esempio, in una situazione di crisi come l’attuale inasprirebbe la crisi (impedendo la trasformazione di crediti bancari inesigibili – e come è noto in giro ce ne sono parecchi – in partecipazioni azionarie nelle società debitrici). Quanto all’abolizione dei «monopoli di fatto», essa per diversi settori è priva di senso: quando si tratta di monopoli naturali (come nel caso delle autostrade) l’abolizione della condizione di monopolio è, infatti, impossibile. Quello su cui invece varrebbe la pena di ragionare, e seriamente, è se questi monopoli – proprio per la loro ineliminabilità – non siano da riportare sotto un controllo pubblico: solo così, infatti, la connessa rendita di monopolio potrebbe essere ripartita socialmente (anziché intascata dall’azionista privato).
Ma è evidente che il tema della proprietà pubblica delle imprese di interesse strategico, anche per Grillo, come per la stragrande maggioranza dei partiti che si presentano a queste elezioni, è tabù. L’unica eccezione riguarda la dorsale telefonica, di cui Grillo propone il riacquisto da parte dello Stato «al prezzo di costo».
Del pari è ignorata la necessità che lo Stato faccia politiche industriali: ossia elabori piani strategici di sviluppo dei settori principali dell’economia, con chiare politiche di incentivo e di disincentivo. L’unico accenno a politiche di questo genere presente nel programma riguarda i «disincentivi alle aziende che generano un danno sociale»: ben poca cosa rispetto a quanto troviamo nella nostra Costituzione, la quale all’articolo 41 prevede che l’iniziativa economica privata non possa «svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», e all’articolo 43 dichiara che «a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano carattere di preminente interesse generale».
Il tema qui sollevato è di importanza cruciale. È infatti ben difficile pensare che l’Italia possa risollevarsi dalla crisi attuale ampliando ulteriormente a spese dello Stato il peso della componente privata nell’economia o, come si dice, del «mercato». L’intervento pubblico è oggi necessario sia sotto un profilo strategico che da un punto di vista più immediato: per affrontare e risolvere le numerosissime crisi aziendali oggi aperte in Italia. Senza questo intervento, l’Italia è destinata a perdere pezzi rilevanti del suo apparato industriale, bruciando irrimediabilmente una quantità difficilmente calcolabile di posti di lavoro. Occorre un intervento pubblico, e occorre che esso sia coordinato e non confusamente decentrato secondo il modello «federalistico» attuale, tanto insostenibile economicamente quanto iniquo e fonte di corruzione. Il programma di Grillo sfiora questo problema, quando, in relazione alla sanità, individua una fonte di pericolo nel federalismo di questi anni. Ma è un giudizio che andrebbe approfondito e soprattutto generalizzato: si pensi alle politiche pubbliche di incentivazione alle imprese, che il federalismo ha disperso in mille rivoli e privato di efficacia, impedendone ogni sensata programmazione sul piano nazionale. Non è un caso se persino Confindustria oggi – un po’ tardivamente – sembra giunta alla conclusione che sia indispensabile una riforma del Titolo V della Costituzione (quello che è stato stravolto in senso «federalista»).

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Uno Stato che non sia spettatore passivo di ciò che si muove nell’economia, e che non si limiti a socializzare le perdite dei privati. Un fisco realmente equo, che premi chi ha sempre pagato e faccia pagare chi può e deve. Una politica per la competitività basata su formazione pubblica di qualità (e non strangolata dai tagli lineari) e su maggiori investimenti (pubblici e privati) in ricerca e sviluppo tecnologico, anziché continuare a comprimere il costo del lavoro. Un’Italia in grado di far sentire la propria voce nel consesso europeo, e di rifiutare il cappio del fiscal compact. Sono queste le priorità di una politica economica in grado di ridare speranza a questo paese e a chi ci abita. Purtroppo, su nessuno di questi punti il programma di Grillo è di qualche aiuto.



Tratto da: http://keynesblog.com/2013/02/07/la-grillonomics-analisi-del-programma-economico-del-movimento-5-stelle/