lunedì 9 settembre 2013

Una crisi di senso, dunque di direzione - Stefano Zamagni 3di6

Una crisi di senso, dunque di direzione - Terza parte


Passo alla seconda separazione di cui sopra ho scritto. Per secoli l’umanità si è attenuta all’idea che all’origine della creazione di ricchezza c’è il lavoro umano – dell’un tipo o dell’altro non fa differenza. Tanto che Adam Smith apre la sua opera fondamentale, La Ricchezza delle Nazioni (1776) proprio con tale considerazione. Quale la novità che la finanziarizzazione dell’economia, iniziata circa un trentennio fa, ha finito col determinare? L’idea secondo cui sarebbe la finanza speculativa a creare ricchezza, molto di più e assai più in fretta dell’attività lavorativa. Una miriade di episodi e di fatti ce ne danno conferma. In Gran Bretagna – paese che ha dato i natali alla rivoluzione industriale – il settore manifatturiero contribuisce oggi con un modesto 12% al PIL nazionale e, fino al 2008, gli occupati nel settore della finanza erano giunti a oltre sei milioni di unità (oggi, metà di questi sono senza lavoro). Negli ultimi decenni, nelle migliori università del mondo, i dipendenti e i programmi di ricerca di business studies sono letteralmente esplosi, spiazzando e/o impoverendo altre aree di studio. (Si veda anche la distribuzione dei fondi tra aree di ricerca. E si vedano ancora le scelte dei corsi di laurea, o dei piani di studio, da parte degli studenti iscritti alle facoltà di economia). E così via. L’affermazione e la diffusione dell’ethos della finanza sono valsi - complici i media – ad accreditare il convincimento che non v’è bisogno di lavorare per arricchirsi; meglio tentare la sorte e soprattutto non avere troppi scrupoli morali.
      Le conseguenze di tale pseudo rivoluzione culturale sono sotto gli occhi di tutti. (Si pensi al maldestro tentativo di sostituire alla figura del lavoratore quella del cittadino-consumatore come categoria centrale dell’ordine sociale). Oggi, ad esempio, non disponiamo di un’idea condivisa di lavoro che ci consenta di capire le trasformazioni in atto. Sappiamo che a partire dalla Rivoluzione Commerciale dell’XI secolo, si afferma gradualmente l’idea del lavoro artigianale, che realizza l’unità tra attività e conoscenza, tra processo produttivo e mestiere – termine quest’ultimo che rinvia a maestria. Con l’avvento della rivoluzione industriale prima e del fordismo-taylarismo poi, avanza l’idea della mansione (segno di attività parcellizzate), non più del mestiere, e con essa la centralità della libertà dal lavoro, come emancipazione dal “regno della necessità”. E oggi, che siamo entrati nella società post-fordista, che idea abbiamo del lavoro? C’è chi propone l’idea della competenza declinata in termini di figura professionale, ma non ci si rende conto delle implicazioni pericolose che ne possono derivare. Una fra tutte: la confusione tra meritocrazia e principio di meritorietà, come se i due termini fossero sinonimi. La civiltà occidentale poggia su una idea forte, l’idea della “vita buona”, da cui il diritto-dovere per ciascuno di progettare la propria vita in vista di una civile felicità. Ma da dove partire per conseguire un tale obiettivo se non dal lavoro inteso quale luogo di una buona esistenza? La fioritura umana – cioè l’eudainomia nel senso di Aristotele – non va cercata dopo il lavoro, come accadeva ieri, perché l’essere umano incontra la sua umanità mentre lavora. Di qui l’urgenza di iniziare ad elaborare il  concetto di eudaimonia lavorativa che per un verso vada oltre l’ipertrofia lavorativa tipica dei tempi  nostri (il lavoro che riempie un vuoto antropologico crescente) e per l’altro verso valga a declinare l’idea di libertà del lavoro (la libertà di scegliere quelle attività che sono in grado di arricchire la mente e il cuore di coloro che sono impegnati nel processo lavorativo).
      Chiaramente, l’accoglimento del paradigma eudaimonico implica che i fini dell’impresa – quali che ne sia la forma giuridica – sono irriducibili al solo profitto, pur non escludendolo. Implica dunque che possano nascere e svilupparsi imprese a vocazione civile in grado di superare la propria autoreferenzialità, dilatando così lo spazio della possibilità effettiva di scelta lavorativa da parte delle persone. Non si dimentichi, infatti, che scegliere l’opzione migliore tra quelle di un “cattivo” insieme di scelta non significa affatto che un individuo si merita ciò che ha scelto.
La libertà di scelta fonda il consenso solamente se chi sceglie è posto nella condizione di concorrere alla definizione dell’insieme di scelta stesso. Aver dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sul principio dello scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad agire su trasferimenti di tipo assistenzialistico di natura pubblica, ci dà conto del perché sia così difficile passare dall’idea del lavoro come attività a quella del lavoro come opera.

Ma v’è di più. Porre l’origine della ricchezza nella finanza, anziché nel lavoro ha avuto, come effetto devastante quello di fare da amplificatore alla diffusione della pseudo cultura dell’avidità. Come sappiamo (Zamagni, Avarizia, Il Mulino, Bologna, 2009), l’avidità è un vizio capitale che raramente si palesa in quanto tale, indossando di volta in volta i panni dell’avidità, della cupidigia, della bramosia, dell’usura, della concupiscenza, della fame dell’oro, della taccagneria, della grettezza. Dal fastidio che ci suscita l’avidità degli altri, l’avido può dedurre quello che gli altri provano nei suoi confronti. Nell’interesse del suo amor proprio, l’avido è indotto a comportarsi come se non lo fosse. La capacità mimetica dell’avidità è tale che in determinate circostanze essa può addirittura assumere le sembianze della virtù come già Giovenale aveva intravisto. L’avarizia si dice in molti modi e se se ne vuole comprendere la natura specifica, è necessario guardare in trasparenza i suoi molti stili e prendere in considerazione le sue semantiche, così come esse si sono andate articolando nel corso del tempo.
      Soprattutto tra gli economisti, si è diffusa l’idea secondo cui l’avarizia sia un vizio, tutto sommato, minore e comunque facilmente correggibile con l’impiego di schemi adeguati di incentivo. Non è per caso se nei testi di economia, da quelli più raffinati a quelli di più ampia divulgazione, mai si parla di comportamento avaro.In tali lavori neppure si considera dotata di senso la domanda se le preferenze dell’homo oeconomicus siano avare o meno. Questi deve solamente pensare a comportarsi in modo razionale, massimizzando, sotto opportune condizioni, l’interesse proprio, quale che esso sia. Eppure, l’avarizia – il più “economico” dei vizi capitali – costituisce uno dei più frequenti casi di “fallimento della ragione” in ambito economico. Poiché difetta di una ragione ben conformata, l’avaro non sa indirizzare la passione dell’avere che alberga in ciascun essere umano; in particolare, non sa indicare a tale passione – di per sé fisiologica – i beni che è ragionevole appetire. L’avaro tesaurizza, accaparra ricchezza sottraendola alla circolazione; non facilita la produzione, ma la ostacola fino a comportamenti dissipativi. E’ un fatto che l’assenza in economia di una teoria delle motivazioni ad agire razionalmente – quali motivi abbiamo per fare ciò che riconosciamo di dover fare – è ciò che spiega l’inadeguatezza della disciplina a comprendere il fenomeno dell’avarizia nelle sue molteplici manifestazioni (tanto è vero che non ne tratta): perché l’avaro continua ad accumulare insaziabilmente pur sapendo che il potere che la ricchezza gli conferisce mai potrà essere realizzato? L’economia possiede bensì una teoria delle ragioni per fare quel che l’homo oeconomicus giudica di dover fare, ma non una teoria dei motivi per fare ciò che questi riconosce di dover fare.
      Qual è la natura propria dell’avidità? Esiste nell’essere umano un sentimento che spinge alla ricerca appassionata di ciò che si confà alle sue esigenze, che ha il nome di desiderio. Il desiderio umano, quando non è deviato, si volge alle cose come a dei beni che lo appaghino. Ma può sbagliare mira. Perché alcuni dei beni cui esso si volge sono beni apparenti, cioè mali: beni che sembrano soddisfarlo,
ma che in realtà lo piegano verso il disordine e lo spingono verso l’infelicità. Il desiderio è in sé  l’energia della vita, ma si possono desiderare cose che fanno fiorire e cose che ci fanno appassire. Ebbene, l’avidità è un desiderio che fa appassire. E’ il deragliamento del desiderio che cresce su se stesso. Sappiamo perché. I beni diventano beni, cioè cose buone, quando sono messi in comune. I beni non condivisi sono sempre vie di infelicità, persino in un mondo opulento. Il denaro tenuto stretto, come geloso possesso, in realtà impoverisce il suo possessore, perché lo spoglia della capacità di dono. L’avido, per definizione, non riesce a donare e dunque non può essere felice. Può fare regali, può cioè impegnarsi in pratiche filantropiche se ciò gli serve, strumentalmente, ad accrescere il suo possesso.

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