martedì 17 settembre 2013

Una crisi di senso, dunque di direzione - Stefano Zamagni 6di6

Una crisi di senso, dunque di direzione - Sesta ed ultima parte


Un secondo ammonimento possiamo trarre da questa grande crisi e cioè che, nonostante le apparenze, la proposta da taluno avanzata di rifugiarsi nella decrescita, non è affatto la soluzione ai problemi delle nostre società. La proposta della “decrescita felice” vanta precedenti illustri: la teoria dello stato stazionario per primo elaborata dal grande filosofo ed economista inglese J.S. Mill a metà Ottocento. Mill – riprendendo alcune considerazioni di Malthus - parlava di stato stazionario per significare una situazione in cui il tasso di crescita netto dell’economia è uguale a zero. Nel capitolo “Sullo stato stazionario” dei suoi Principles (1848), Mill criticava la scienza economica del suo tempo per aver identificato il benessere economico e sociale con l’andamento senza sosta della crescita dei profitti. Bloccare la logica egemonica dei “piaceri quantitativi” voleva dire per Mill mettere in discussione la capacità di autoregolazione del capitalismo e riportare in primo piano il ruolo della politica. In seguito, altri economisti e pensatori hanno formulato ipotesi analoghe.
Ricordo, tra questi, Paul Lafargue, genero di Marx, con il suo saggio Diritto all’ozio in cui è avanzata la proposta di lavorare tre ore al giorno (sic!); Bertrand Russell con il suo Elogio dell’oziosità che esplicitamente tratta di decrescita (propone un orario di lavoro di quattro ore giornaliere); E. F. Schumacher con il celebre Piccolo è bello. Un’economia come se gli esseri umani contassero; ed ancora Nicholas Georgescu Roegen con il suo programma di “bioeconomia” avanzato negli anni Settanta del secolo scorso. Non ci si deve dunque meravigliare se, di tanto in tanto, la preoccupazione per la sostenibilità e le preoccupazioni per il futuro spingono studiosi di diversa matrice culturale (ad es., J.S. Mill era un grande liberale) ad avanzare proposte del tipo decrescita felice, come in tempi recenti va facendo, con grande impegno, Serge Latouche.
Pur comprendendo le ragioni che rendono di grande attualità il movimento della decrescita e pur condividendo la diagnosi e l’eziologia dei “mali” della nostra società svolte dagli studiosi del movimento, non ritengo che la terapia suggerita e la via di uscita prospettata vadano nella direzione desiderata.
Vediamo perché.
In primo luogo, va precisato che il concetto di sviluppo ha ben poco da spartire con quello di crescita. Etimologicamente, sviluppo significa “liberazione dai viluppi, dai vincoli” che limitano la libertà della persona e delle aggregazioni sociali in cui essa si esprime. Questa nozione di sviluppo viene pienamente formulata all’epoca dell’Umanesimo civile (XV secolo). Decisivo, a tale riguardo, è stato il contributo della Scuola di pensiero francescana: ricercare le vie dello sviluppo significa amare la libertà. Tre sono le dimensioni dello sviluppo autenticamente umano, tante quante sono le dimensioni della libertà: la dimensione quantitativo-materiale, cui corrisponde la libertà da; quella sociorelazionale, cui corrisponde la libertà di; quella spirituale, cui corrisponde la libertà per.
Nelle condizioni storiche attuali, è bensì vero che la dimensione quantitativomateriale fa aggio – e tanto – sulle altre due, ma ciò non legittima affatto la conclusione che riducendo (o annullando) la crescita – che rinvia alla sola dimensione quantitativo-materiale – si favorisca l’avanzamento delle altre due dimensioni. Anzi, si può dimostrare – ma non è questa la sede – che è vero proprio il contrario. Ecco perché preferisco parlare di sviluppo umano integrale, di uno sviluppo, cioè, che deve tenere in armonico e mutuo bilanciamento le tre dimensioni di cui sopra. Un tale obiettivo si realizza attraverso un mutamento della composizione – e non già del livello – del paniere dei beni di consumo: meno beni materiali, più beni relazionali e immateriali e soprattutto più beni comuni (da non confondersi con i beni pubblici o con i beni collettivi).E’ possibile ciò? Certo che lo è, come il filone di studi dell’economia civile da Antonio Genovesi (1753) in avanti ha indicato e come talune esperienze – per la verità ancora modesta - vanno dimostrando.
L’antidoto dunque all’attuale modello consumistico non è la decrescita, quanto piuttosto l’economia civile – un programma di ricerca e uno stile di pensiero, tipicamente italiani, ben noti in Europa fino alla metà del Settecento, ma che da allora sono stati obnubilati dal paradigma dell’economia politica. Si  notino le differenze: mentre l’economia civile è finalizzata al bene comune, l’economia politica mira piuttosto al bene totale. Laddove quest’ultima ritiene di poter risolvere i problemi della sfera economico-sociale appoggiandosi sui soli principi dello scambio di equivalenti e di redistribuzione, l’economia civile aggiunge a questi due principi quello di reciprocità, che è il precipitato pratico della fraternità.
La novità della economia civile è nell’avere restituito alla fraternità quel ruolo centrale nelle sfere dell’economico e del sociale che la Rivoluzione francese e l’utilitarismo di Bentham avevano completamente cancellato.
In secondo luogo, per paradossale che ciò possa apparire, la tesi della decrescita rischia di eludere la natura vera del problema e ciò nella misura in cui essa si limita a porre il segno meno al paradigma dell’economia politica, non costituendone il superamento. Il fatto è che la crescita è una dimensione fondamentale di ogni essere vivente. Come dice F. Capra, non c’è vita senza crescita. Certo, va sempre tenuto a mente che quello della crescita non è un processo lineare, come Steven Gould ha persuasivamente mostrato con la sua teoria degli equilibri punteggiati. Continuare allora a parlare di decrescita (meno industria, meno consumi, ecc.) vale a distogliere l’attenzione (e lo sforzo) dal vero problema, che è duplice. Per un verso, quello di trovare il consenso necessario su quale crescita si vuole puntare; per l’altro verso, quello di individuare come passare da un sistema che, come l’attuale, è centrato su un’idea di crescita illimitata ad un altro che invece accolga al proprio interno la nozione di limite (delle risorse, ambientale, energetico, alle disuguaglianze sociali). A questo scopo, ci occorre un’analisi di traversa (nel senso di J. Hicks) e non già un’analisi di dinamica comparata, come invece si continua a fare. Ricordo sempre, in argomenti del genere, la celebre frase di F. Kafka: “Esiste un punto di arrivo, ma nessuna via”. (Il Castello). A poco serve sapere che c’è la possibilità di arrivare ad un equilibrio superiore se non si indica il sentiero (di traversa) per raggiungerlo.
Se la crisi è anche e soprattutto spirituale (ha cioè a che vedere con lo spirito che ha animato in Occidente la stagione storica che è ormai alle nostre spalle) allora non basta ridurre o addirittura annullare l’espansione quantitativa. E’ la direzione che va mutata e per far questo ci vuole un pensiero forte che mai prescinda dalla nostra condizione di esseri liberi. Su questo il movimento della decrescita mi pare silente. La nuova stagione di crescita che dobbiamo auspicare non può essere una mera espansione quantitativa, ma una eccedenza qualitativa in grado di valorizzare la vera ricchezza di cui disponiamo, che solo una comunità di uomini liberi può sprigionare. Se invece si continua a demonizzare il mercato, questo diventerà davvero un luogo infernale. La sfida da vincere è piuttosto quella della sua umanizzazione, ovvero della sua civilizzazione.
Un’ultima annotazione. L’idea di Latouche e degli altri studiosi che si riconoscono nel programma di ricerca della decrescita è che sia ormai indilazionabile il salto cosiddetto di paradigma. Poiché è la stessa società dei consumi e della crescita senza limiti a costituire il problema, è urgente “uscire dall’economia”. Per quanto evocativa, tale espressione è fuorviante perché ambigua. Infatti, se economia sta qui a significare il problema economico in quanto tale, una tale proposta è priva di senso. Perché, come la letteratura di antropologia economica da tempo ha documentato, quello economico è il
primo (in senso temporale) problema degli umani, un problema che si pone sia prima di quello politico – che principia quando Caino, dopo l’uccisione di Abele, fonda la prima città - sia prima di quello giuridico – che nasce quando Romolo uccide Remo. Uscire dall’economia, in quel senso, sarebbe allora come uscire dalla “casa” dell’uomo. Se invece l’espressione richiamata viene presa a significare la fuoriuscita da un certo discorso economico e da un certo paradigma teorico, ciò è certamente necessario. Il mainstream economico, al pari di tutte le forme di pensiero egemone, ha finito col far credere che l’economia è solo scambio di equivalenti e che il mercato può essere popolato solo da homines oeconomici – il che è attualmente falso. Fuoriuscire da questa economia vuol dire allora fuoriuscire dall’economia? Crederlo sarebbe cadere in un grave errore di ingenuità epistemologica; ma soprattutto sarebbe cadere nella trappola tesa dal paradigma che si vuole abbattere. Sarebbe come concludere che, poiché il modello della scelta razionale (rational choice) è aporetico e incapace di dare conto di grossi ambiti della realtà, si deve rinunciare alla nozione stessa di razionalità del comportamento umano. E invece basta cambiare il modello di razionalità.
La risposta alla crisi non è come porre rimedio alle condizioni di eccesso che hanno reso la nostra una “società obesa”, in senso figurato, ma non è neppure la decrescita che si ferma al solo piano quantitativo, del più e del meno.
L’alternativa all’obesità non è infatti la denutrizione, ma il discernimento. (A meno che con l’espressione decrescita felice si intenda far riferimento ad un progetto globale come quello, ad esempio, dell’economia civile).
Vado a chiudere. La battaglia contro i guasti economici, sociali e morali di questa crisi presuppone quello che Irving Howe definì un “lavoro stabile”, riferendosi ad una storiella ebraica. Questa: la comunità ebraica di un paese polacco incaricò un suo membro di stazionare all’ingresso dell’abitato in attesa del Messia, in modo che, quando lo avesse visto arrivare, potesse avvertire tutti gli altri di tenersi pronti. Qualcuno chiede all’uomo: “E questo sarebbe un lavoro? Stare fermi in attesa della venuta del Messia?” Immediata la risposta: “Sì, è un lavoro. La remunerazione è modesta, ma è un lavoro stabile”. (Cit. in R. Jahanbegloo, Conversazioni con Michael Walzer, Marsilio, Venezia, 2012). Anche lo sforzo per attuare le ragioni di un modo diverso di fare economia è un “lavoro stabile”, scarsamente ricompensato, ma esaltante. Tutte le battaglie per affermare grandi idee sono esposte alla eterogenesi dei fini – che spesso indirizza il nostro agire lontano dagli esiti che intendevano conseguire – ma rendono tanto felici.

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