giovedì 2 maggio 2013

Chi comanda in Italia?

Chi comanda in Italia? E’ la domanda che si pone Giulio Sapelli nel suo ultimo libro che analizza i motivi della disgregazione politica nel nostro Paese, con conseguenze economiche e sociali negative che sono sempre più evidenti agli occhi di tutti.

a cura di Gianpiero Magnani


Chi comanda in Italia? E’ la domanda che si pone Giulio Sapelli nel suo ultimo libro che analizza i motivi della disgregazione politica nel nostro Paese, con conseguenze economiche e sociali negative che sono sempre più evidenti agli occhi di tutti.

Il sistema politico italiano, osserva Sapelli, è invertebrato, è ”un insieme gassoso di forze” caratterizzato da contrapposizioni puramente personalistiche, dove tutti vogliono comandare anzitutto per impedire agli altri di comandare: “l’importante non è vincere, ma impedire agli altri di vincere”. Il risultato finale è che, se nessuno comanda, alla fine una forza che comanda comunque c’è, ed è il denaro.

La disarticolazione dei poteri in Italia non è recente, ma risale almeno agli anni Novanta, con le privatizzazioni prive di liberalizzazioni e con l’accresciuto potere autonomo degli ordini dello Stato, a partire dalla magistratura; una disarticolazione accresciuta dalla sostanziale mancanza di classi dirigenti, sia in politica che in economia, che in passato si erano invece prodotte nel nostro Paese grazie soprattutto ad influenze estere, prima con la Resistenza (che riuniva persone formatesi nel cattolicesimo internazionale, nel socialismo internazionale, nel comunismo internazionale) e poi col managerialismo americano, a partire dal Piano Marshall. Queste persone avevano una formazione che le portava ad interpretare una “missione storica” che era ben lontana dal perseguimento di interessi particolari; ed erano attive sia in politica che in economia, in particolare esistevano in Italia importanti classi dirigenti nell’industria pubblica e, in alcuni casi, in quella privata (Adriano Olivetti, Alberto Pirelli). Ma dagli anni Settanta è iniziato il ripiegamento verso l’interno, culminato nella “distruzione dei partiti di massa, con l’emersione dei partiti arcipelago a forma neo-caciquista. Ossia personalistica” (L’inverno di Monti). Solo i sindacati, le Camere di Commercio e le rappresentanze degli imprenditori sono rimaste ancora salde, mentre oggi sempre di più si impone un nuovo patto per la legalità e per la crescita, con l’abbandono delle politiche dell’austerità e l’avvio di un keynesismo europeo.

Invece si è voluto realizzare un grande progetto come quello dell’Unione Europea solo per via monetaria, senza introdurre tutti gli altri strumenti necessari, a partire da una Banca Centrale che funzioni come la Federal Reserve americana fino a strumenti politici che sono indispensabili per un’unione di questo tipo, “un parlamento che decide anziché una commissione che decide”; ma l’unificazione europea è stata costruita per via amministrativa e monetaria, non politica: “di qui l’Europa come Leviatano burocratico; bersaglio ideale per il neo-populismo di sinistra e di destra” (L’inverno di Monti). La creazione di una moneta unica senza stato unitario ha creato infine le condizioni per la speculazione internazionale contro l’euro, da parte di quell’ “oligopolio finanziario mondiale, che comunemente si chiama mercato” (L’inverno di Monti).

Una urgente inversione di rotta perciò si impone, se vogliamo impedire la disgregazione dell’Europa: “riformare lo statuto della BCE sulla scorta di quello della FED, abbandonare le politiche d’austerità e, distinguendo lo spreco pubblico dalla spesa pubblica, dar vita a un keynesismo europeo, non nazionale”.

E’ altresì necessaria una profonda riforma che difenda il lavoro, evitando le sofferenze personali che derivano da una flessibilità che in tempi di crisi è distruttiva perché, osserva Sapelli, la precarietà “un conto è viverla in tempi di crescita economica e un conto è viverla quando c’è la crisi”; si impone allora come necessaria “la creazione di nuove forme comunitarie di welfare che assumeranno anche forme di nuove unità economiche non capitalistiche”.

Assistiamo invece sempre di più allo spostamento del reddito dal lavoro al capitale, un fenomeno che ha creato le condizioni materiali di quel totalitarismo liberistico, un pensiero unico che è alla base delle crisi economiche degli ultimi anni; da questo punto di vista, le sinistre politiche dei paesi occidentali non solo non hanno saputo interpretare le esigenze delle forze produttive e del lavoro, e la loro stessa tradizione storica, ma hanno inseguito la modernità, il “nuovo” troppo spesso identificato col mondo della finanza e con le liberalizzazioni in quanto tali: “L’aver posto al centro dell’organizzazione sociale il denaro, anziché il lavoro, ha avuto conseguenze devastanti. E questo per l’impossibilità del denaro (…) di riaggregare il sociale e di dare ad esso un significato di comunità riproducibile”.

A questo proposito, nel libro La Crisi Economica Mondiale Sapelli suggerisce di considerare la dialettica rendita-profitto come elemento indispensabile per misurare la salute di un sistema economico e sociale: “Se la rendita prevale sul profitto la società si ammala, le forze vive dello sviluppo declinano a vantaggio dell’interesse parassitario, che spinge all’oligopolio e alla collusione tra pubblico e privato, con conseguenze che possono introdurre tossine pericolosissime per l’equilibrio sociale”.

Oltre alla stabilità dei prezzi, occorre quindi considerare la piena occupazione come obiettivo prioritario da perseguire con politiche pubbliche adeguate.

A livello mondiale però, a dispetto delle privatizzazioni, si sta profilando un nuovo capitalismo politico, diverso dalla proprietà collettiva, e ben rappresentato dai fondi sovrani: questo neopatrimonialismo partitocratico potrebbe avere conseguenze rilevanti sull’economia futura e screditare ulteriormente la politica, il cui campo d’azione nel nostro Paese si va peraltro restringendo, a favore di altri poteri; andrebbero perciò recuperati gli studi e le lezioni dei grandi teorici delle élite, Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, per far capire anzitutto come le classi politiche possano vivere “non di politica, ma per la politica”. Perché ciò di cui abbiamo bisogno sono forti poteri aggregativi, democratici, e “forti culture umanistiche che diano visione e speranza a ciò che rimane di un popolo sempre più solo” (Chi comanda in Italia).


Riferimenti bibliografici:
- Giulio Sapelli, CHI COMANDA IN ITALIA, ed. Guerini e Associati, Milano 2013
- Giulio Sapelli, L’INVERNO DI MONTI. Il bisogno della politica, ed. Guerini e Associati, Milano 2012
- Giulio Sapelli, LA CRISI ECONOMICA MONDIALE, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2008

2 Maggio 2013
Gianpiero Magnani @ gianpiero.magnani@libero.it



Tratto da: http://valori.it/speciali/chi-comanda-italia-6353.html

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