giovedì 30 maggio 2013

Letta-Alfano, "scacco matto" alla Germania in tre mosse - Giulio Sapelli

La borsa di Tokyo manda segnali negativi. Non premia il keynesismo da riarmo del primo ministro Abe e la politica inflattiva che ne consegue, anche se si tratterà di un’inflazione a tassi inimmaginabilmente bassi rispetto a quella degli anni ‘80, gli anni della cosiddetta stagflation. E poi non bisogna dimenticare che, a parer mio, la ragione profonda del crollo della borsa giapponese risiede nel fatto che è emersa in tutta evidenza l’inizio della fine della crescita prorompente della Cina. Lo sanno anche i dirigenti cinesi che tentano di sfuggire dal modello sostanzialmente sovietico dell’economia cinese caratterizzata da eccessi di investimenti indebitati e da carenza di consumi interni e quindi da scarsità di domanda aggregata. A fronte di questa scarsità, la svalutazione dello yen può fare ben poco e il Giappone dovrà quindi destinare le sue esportazioni verso i paesi ricchi. Ma qui la crisi non è finita. Gli Usa, nonostante lo shale gas e il new oil, fanno riscontrare una crescita degli incagli e delle sofferenze bancarie e quindi vuol dire che la vera ripresa nordamericana è ancora ben lontana. L’Europa è una tundra di ghiaccio che sta cominciando ad avanzare anche nella Foresta Nera e sui laghi bavaresi, come dimostrano i dati da incubo sulla stentatissima crescita futura della Germania.
Stiamo sicuramente assistendo alla trasformazione di un sistema economico-sociale e ci vorrebbe l’intelligenza dello Schumpeter di “Capitalismo, socialismo e democrazia” per capire che cosa sta succedendo. Di certo, il capitalismo non sta morendo, come diceva il grande economista austriaco, per eccesso di burocratica statizzazione, ma al contrario, per eccesso di economica liberalizzazione ad alto gradiente di burocratizzazione statualistica. Una cosa è certa: è il capitalismo a essere in crisi. Non siamo davanti a una crisi, ma alla crisi del capitalismo.
Tra questa spettrale scenografia si muove il governo Letta. Le quinte siderurgiche crollano e gli altiforni si spengono, le micro e piccole imprese affondano nelle paludi della tassazione, le medie imprese, alias multinazionali tascabili, si scontrano con la caduta del commercio mondiale, le poche grandi imprese rimaste o cambiano nazionalità o vengono smantellate dalla magistratura.
Nell’ombra delle quinte si assiste a varie scene che si susseguono sul palco: suicidi di gente operosa e disperata, omicidi efferati da fine del mondo, pazzie collettive da intellettuali di classi medie che hanno perso il lume della ragione. Come nei disegni di Henry Moore che rappresentavano coloro che dormivano nelle metropolitane londinesi durante la Seconda guerra mondiale, immense file di disoccupati sostano negli uffici di collocamento e davanti alle mense cattoliche, e alcuni di loro sono degli adolescenti, mentre altri sono persone che vent’anni fa sarebbero già andate in pensione.

Ciò nonostante il governo Letta-Alfano sta dando una gran buona prova di sé. Fa tutto il possibile. Ha vinto la partita di fuoriuscita dalla procedura d’infrazione europea e dispone di un po’ di quattrini e di altri ne disporrà se la già da me ricordata golden rule richiesta da Letta avrà i suoi effetti togliendo dal deficit di Maastricht tanto le spese per le infrastrutture quanto quelle per la coesione sociale. Forte di questo atteggiamento, più che dei risultati, il governo deve continuare a sfidare l’austerità europea. A porsi come la punta di lancia di tutti coloro che vogliono spezzar il ghiaccio della tundra. Come fare? Da un lato rassicurare l’oligopolio finanziario e pseudo-tecnocratico-europeo-teutonico che si vogliono ridurre gli sprechi pubblici, cartolarizzando finalmente il patrimonio immobiliare pubblico dello Stato e degli enti locali, rapidamente, con decisione. Lanciare un prestito forzoso, attraverso l’offerta di titoli di Stato, obbligando i percettori di reddito superiori ai 200.000 euro ad acquistarne per lo 0,5% del loro patrimonio, così da travestire da prestito per la patria una pseudo-patrimoniale occulta che non spaventerebbe nessuno. Così potremmo ridurre le tasse sull’impresa e sul lavoro. In questo contesto, giocando sugli avanzi di cassa e con tutti gli artifici finanziari che si possono fare con la finanza pubblica, finanziare un piano del lavoro che si fondi sul principio che non è liberalizzando il mercato del lavoro che si crea occupazione, ma investendo in settori essenziali per la crescita, quali le infrastrutture, le nuove tecnologie 3D e i cluster meccatronici che sono essenziali per la vita delle nostre piccole e medie imprese più evolute.
Penso a una nuova Iri? No. Non voglio creare ospedali di salvataggio per imprese decotte. E’ l’investimento che crea profitto e lavoro, non viceversa. E quindi lo Stato deve tornare a diventare imprenditore secondo lo storico modello dell’Eni, ma con la forma giuridica del trust anglosassone e non dell’ente di gestione. E quindi nessun consiglio di amministrazione, ma tutti gli amministratori unici che servono. Solo così si potrà recitare su un palco meno spettrale.



Tratto da: http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2013/5/28/FINANZA-1-Sapelli-Letta-Alfano-scacco-matto-alla-Germania-in-tre-mosse/2/397324/

mercoledì 8 maggio 2013

Prima le persone poi il rigore Zamagni, "ripensare l'economia"

“Se continuiamo ad anteporre il rigore a tutto rischiamo di andare verso la bancarotta sociale”. L’allarme è stato lanciato da Antonio Marzano, presidente del Cnel nel corso del convegno “Un modello italiano per il Welfare, l’orizzonte dei beni di comunità” organizzato oggi a Roma. Durante l’incontro diversi esperti del settore hanno analizzato le radice della crisi dello Stato sociale nel nostro paese, cercando di trovare anche possibili soluzioni. Secondo Marzano bisognerebbe rimettere al centro innanzitutto l’idea di “politica come servizio”, in un paese dove tutto sta entrando in crisi, anche la produzione di massa e non c’è meritocrazia.

Guardare alle esperienze di comunità è centrale per Jhonny Dotti, presidente di Welfare Italia, “non bisogna aspettare ma agire: mi aspetto una grande stagione non di riforme legislative – ha detto - ma di esperienze istituenti”. Nel nostro paese c’è un’incapacità ad analizzare il presente, esempio di questa miopia la “legge sul badantato, che è stata veramente suicida, perché ha permesso il trasferimento di 10 miliardi l’anno ai paesi dell’Est- afferma Dotti - nessun politico e nessuna associazione, ha saputo cogliere il treno dell’assistenza familiare”. Anche per il presidente del Censis Giuseppe De Rita, bisogna guardare al territorio e alle “esperienze istituenti”, che in esso si generano. “Non ci sono interventi dello Stato che possono cambiare il mondo, anche il welfare è cambiato e oggi è totalmente monco – afferma – Una vera politica di Welare non c'è, ma nel frattempo sono nate alcune esperienze sul territorio, che ci fanno parlare di welfare comunitario”.

Per Stefano Zamagni, professore di Economia politica all’università di Bologna bisogna passare da un’idea di Welfare legato alla fragilità, a un modello pensato per la vulnerabilità, cioè per quei soggetto che hanno il 50 per cento di probabilità di cadere una situazione di disagio. “Occorre anche pensare a un nuovo modo di strutturare i servizi del welfare – aggiunge - cioè a una sussidiarietà circolare, in cui enti pubblici, soggetti economici e del Terzo settore, interagiscono sia per la progettazione degli interventi sia per la loro erogazione, sulla base di schemi che prevedono limiti e compitenze”. Secondo Zamagni in alcune aree questo sta avvenendo e i risultati già si vedono ma è “il mondo terzo settore deve passare dall’essere un operatore sociale a diventare un imprenditore sociale –aggiunge – questo balzo è necessario”. Anche Flavio Felice, professore di economia all’università Lateranense ha ricordato che il “ciclo di sussidiarietà richiama un'esigenza di raccordo degli ordini civili”. “Spesso facciamo riferimento alla società civile, alla cultura civile, ma dovremmo iniziare a ragionare su ciò che è realmente civile – afferma - . E iniziare a pensare alla società civile come argine critico, come limite, e a un ordine politico necessario”. (ec)


Tratto da: http://www.affaritaliani.it/emilia-romagna/prima-le-persone-poi-il-rigore-zamagni-ripensare-l-economia060513.html?refresh_ce

giovedì 2 maggio 2013

Chi comanda in Italia?

Chi comanda in Italia? E’ la domanda che si pone Giulio Sapelli nel suo ultimo libro che analizza i motivi della disgregazione politica nel nostro Paese, con conseguenze economiche e sociali negative che sono sempre più evidenti agli occhi di tutti.

a cura di Gianpiero Magnani


Chi comanda in Italia? E’ la domanda che si pone Giulio Sapelli nel suo ultimo libro che analizza i motivi della disgregazione politica nel nostro Paese, con conseguenze economiche e sociali negative che sono sempre più evidenti agli occhi di tutti.

Il sistema politico italiano, osserva Sapelli, è invertebrato, è ”un insieme gassoso di forze” caratterizzato da contrapposizioni puramente personalistiche, dove tutti vogliono comandare anzitutto per impedire agli altri di comandare: “l’importante non è vincere, ma impedire agli altri di vincere”. Il risultato finale è che, se nessuno comanda, alla fine una forza che comanda comunque c’è, ed è il denaro.

La disarticolazione dei poteri in Italia non è recente, ma risale almeno agli anni Novanta, con le privatizzazioni prive di liberalizzazioni e con l’accresciuto potere autonomo degli ordini dello Stato, a partire dalla magistratura; una disarticolazione accresciuta dalla sostanziale mancanza di classi dirigenti, sia in politica che in economia, che in passato si erano invece prodotte nel nostro Paese grazie soprattutto ad influenze estere, prima con la Resistenza (che riuniva persone formatesi nel cattolicesimo internazionale, nel socialismo internazionale, nel comunismo internazionale) e poi col managerialismo americano, a partire dal Piano Marshall. Queste persone avevano una formazione che le portava ad interpretare una “missione storica” che era ben lontana dal perseguimento di interessi particolari; ed erano attive sia in politica che in economia, in particolare esistevano in Italia importanti classi dirigenti nell’industria pubblica e, in alcuni casi, in quella privata (Adriano Olivetti, Alberto Pirelli). Ma dagli anni Settanta è iniziato il ripiegamento verso l’interno, culminato nella “distruzione dei partiti di massa, con l’emersione dei partiti arcipelago a forma neo-caciquista. Ossia personalistica” (L’inverno di Monti). Solo i sindacati, le Camere di Commercio e le rappresentanze degli imprenditori sono rimaste ancora salde, mentre oggi sempre di più si impone un nuovo patto per la legalità e per la crescita, con l’abbandono delle politiche dell’austerità e l’avvio di un keynesismo europeo.

Invece si è voluto realizzare un grande progetto come quello dell’Unione Europea solo per via monetaria, senza introdurre tutti gli altri strumenti necessari, a partire da una Banca Centrale che funzioni come la Federal Reserve americana fino a strumenti politici che sono indispensabili per un’unione di questo tipo, “un parlamento che decide anziché una commissione che decide”; ma l’unificazione europea è stata costruita per via amministrativa e monetaria, non politica: “di qui l’Europa come Leviatano burocratico; bersaglio ideale per il neo-populismo di sinistra e di destra” (L’inverno di Monti). La creazione di una moneta unica senza stato unitario ha creato infine le condizioni per la speculazione internazionale contro l’euro, da parte di quell’ “oligopolio finanziario mondiale, che comunemente si chiama mercato” (L’inverno di Monti).

Una urgente inversione di rotta perciò si impone, se vogliamo impedire la disgregazione dell’Europa: “riformare lo statuto della BCE sulla scorta di quello della FED, abbandonare le politiche d’austerità e, distinguendo lo spreco pubblico dalla spesa pubblica, dar vita a un keynesismo europeo, non nazionale”.

E’ altresì necessaria una profonda riforma che difenda il lavoro, evitando le sofferenze personali che derivano da una flessibilità che in tempi di crisi è distruttiva perché, osserva Sapelli, la precarietà “un conto è viverla in tempi di crescita economica e un conto è viverla quando c’è la crisi”; si impone allora come necessaria “la creazione di nuove forme comunitarie di welfare che assumeranno anche forme di nuove unità economiche non capitalistiche”.

Assistiamo invece sempre di più allo spostamento del reddito dal lavoro al capitale, un fenomeno che ha creato le condizioni materiali di quel totalitarismo liberistico, un pensiero unico che è alla base delle crisi economiche degli ultimi anni; da questo punto di vista, le sinistre politiche dei paesi occidentali non solo non hanno saputo interpretare le esigenze delle forze produttive e del lavoro, e la loro stessa tradizione storica, ma hanno inseguito la modernità, il “nuovo” troppo spesso identificato col mondo della finanza e con le liberalizzazioni in quanto tali: “L’aver posto al centro dell’organizzazione sociale il denaro, anziché il lavoro, ha avuto conseguenze devastanti. E questo per l’impossibilità del denaro (…) di riaggregare il sociale e di dare ad esso un significato di comunità riproducibile”.

A questo proposito, nel libro La Crisi Economica Mondiale Sapelli suggerisce di considerare la dialettica rendita-profitto come elemento indispensabile per misurare la salute di un sistema economico e sociale: “Se la rendita prevale sul profitto la società si ammala, le forze vive dello sviluppo declinano a vantaggio dell’interesse parassitario, che spinge all’oligopolio e alla collusione tra pubblico e privato, con conseguenze che possono introdurre tossine pericolosissime per l’equilibrio sociale”.

Oltre alla stabilità dei prezzi, occorre quindi considerare la piena occupazione come obiettivo prioritario da perseguire con politiche pubbliche adeguate.

A livello mondiale però, a dispetto delle privatizzazioni, si sta profilando un nuovo capitalismo politico, diverso dalla proprietà collettiva, e ben rappresentato dai fondi sovrani: questo neopatrimonialismo partitocratico potrebbe avere conseguenze rilevanti sull’economia futura e screditare ulteriormente la politica, il cui campo d’azione nel nostro Paese si va peraltro restringendo, a favore di altri poteri; andrebbero perciò recuperati gli studi e le lezioni dei grandi teorici delle élite, Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, per far capire anzitutto come le classi politiche possano vivere “non di politica, ma per la politica”. Perché ciò di cui abbiamo bisogno sono forti poteri aggregativi, democratici, e “forti culture umanistiche che diano visione e speranza a ciò che rimane di un popolo sempre più solo” (Chi comanda in Italia).


Riferimenti bibliografici:
- Giulio Sapelli, CHI COMANDA IN ITALIA, ed. Guerini e Associati, Milano 2013
- Giulio Sapelli, L’INVERNO DI MONTI. Il bisogno della politica, ed. Guerini e Associati, Milano 2012
- Giulio Sapelli, LA CRISI ECONOMICA MONDIALE, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2008

2 Maggio 2013
Gianpiero Magnani @ gianpiero.magnani@libero.it



Tratto da: http://valori.it/speciali/chi-comanda-italia-6353.html